É con estremo piacere che introduco questa conversazione con Ferruccio Ascari (Campi Salentina, 1949), artista con cui ho avuto a che fare anni fa, in occasione della mia prima tesi di laurea sulla figura di Marco Fraccaro e le mostre da lui promosse presso il Collegio Cairoli di Pavia. Proprio lì Ascari aveva tenuto la sua prima mostra appena 24enne, fresco di laurea in Filosofia all’università di Urbino. L’ho rincontrato nel 2017 in occasione di Silenzio, la mostra che toccava tre luoghi sacri di Milano, dalla quale è nata l’idea di questa intervista, allo scopo di far conoscere la sua idea di arte come contaminazione fra arti visive, danza, performance e musica, con una grande apertura nei confronti dei diversi linguaggi artistici a cui ha da sempre affiancato la passione per il pensiero yogico. Così sono andata a trovarlo nel suo studio/laboratorio di Milano in compagnia del fotografo Fabio Mantegna.
Vorrei iniziare da un momento preciso della sua carriera, perché come sa, il suo inizio di carriera è stato riportato nella mia prima tesi di laurea che approfondiva la figura di Marco Fraccaro quale promotore e organizzatore di mostre presso il Collegio Cairoli di Pavia, che ha segnato un po’ anche il mio di inizio come storica dell’arte. Ricorda la sua prima mostra Tra guardare e vedere del 1973? Come era entrato in contatto con Fraccaro? E come si sviluppava la sua ricerca allora?
Pavia era una delle città più attive politicamente, il gruppo che contava di più, così come a Pisa, era Lotta Continua, in cui militavo, e questo con Fraccaro c’entra e non c’entra. Ha però a che fare con quella iattanza giovanile, legata alla militanza politica, che spingeva un giovane artista come me a non avere timore di andare a chiedere spazio ad una istituzione, peraltro un’istituzione di un’aristocrazia intellettuale come il Collegio Cairoli, che poteva incutere timore. Fraccaro, però, era una persona diversa. Intanto era un grande amante dell’arte, oltre ad essere uno scienziato di vaglia, e poi aveva un fare molto poco italiano. Per cui io mi sono sfacciatamente auto presentato. Mi ricordo di avergli telefonato dicendogli che volevo fare “un’operazione”, dimenticandomi di aggiungere “di carattere estetico”. Per cui lui capì che io dovevo fare un’operazione di carattere clinico. Così ci incontrammo e lui mi disse “qual è il suo problema?” e fu molto sorpreso quando capì che ero un artista, ci facemmo una gran risata! Lui aveva aperto all’interno del Collegio Cairoli, di cui era rettore, un bellissimo spazio che aveva adibito a galleria dedicandola ai suoi studenti per avvicinarli all’arte contemporanea. Per me è sempre stato molto importante progettare una mostra in relazione ad uno specifico luogo, per cui quello spazio mi offri molti stimoli. Mi fu concesso di rimanervi dentro del tempo per cercare di capire che cosa potevo fare, per percepirne il genius loci, ed è così che è nato Tra guardare e vedere.
Era una mostra concettuale? Lei si poneva dalla parte del fruitore…
Si era di un concettualismo non puro, perché io ho sempre avuto bisogno di “mettere le mani in pasta”, di fare, per cui per me la parte concettuale del lavoro era, e continua ad essere, importante, però la dimensione mentale che è sempre molto presente nel mio lavoro deve incarnarsi, trovare una realizzazione in opere che possono essere più o meno rarefatte, ma che comunque interagiscano con la materia e la trasformino. Per me l’idea non è mai legata alla pura speculazione, soprattutto nell’ambito dell’arte.
Domanda un po’ strana , me ne rendo conto, nel 1977 lei realizza Porta Solare. Era legato in qualche modo ai suoi interessi per il pensiero yogico? E in che modo questo pensiero ha influito sul suo lavoro?
L’influenza dello Yoga nel mio lavoro artistico è sicuramente consistente per quanto riguarda il mio percorso personale, da tanti punti di vista. Intanto da un punto di vista oggettivo perché yoga è una filosofia, una visione del mondo che non trascura alcun aspetto della realtà. Non c’è un aspetto della vita che lo Yoga non tocchi, proprio nessuno: dal cibo al modo di relazionarsi con l’altro. Lo yoga parte da dei principi fondamentali primo dei quale è Aimsha, la non violenza, non certo dalle posture o dalle tecniche respiratorie, ma da una visione del mondo. Dunque lo yoga ha influenzato molto il mio percorso artistico, anche perché si tratta, in entrambi i casi, di due discipline in cui l’idea è importante, ma la sua concretizzazione in “un fare” lo è altrettanto. Si può dire piuttosto che lo Yoga ha un’influenza positiva su qualunque cosa tu faccia, che sia matematica o equitazione: Yoga ti farà andare meglio a cavallo o risolvere meglio i tuoi problemi di carattere logico-matematico. Tra i miei lavori ce ne sono alcuni che si ispirano chiaramente all’iconografia yogica, ma, per tornare alla sua domanda, Porta Solare non è tra questi, non ha una relazione diretta con lo yoga: è piuttosto una delle tante idee che mi si affacciano alla mente tra il sonno e la veglia, all’alba: le lascio decantare un po’ nella testa e piano piano prendono forma.
Nel ‘78 realizza Vibractions e Mano Armonica, che tra l’altro riproporrà nel 1979 al Collegio Cairoli. Questo gioco con i suoni, i gesti e la performance mi fa mettere in relazione il suo lavoro con le sperimentazione Fluxus, sbaglio o ci sono dei punti di contatto nella sua visione dell’arte come flusso indistinto di varie forme di espressione che si mescolano? E con questo mi riallaccio ad un altro avvenimento di quell’anno, la fondazione di Sixto/Notes – Centro sperimentale di arti visive – con Luisa Cividin, Daniela Cristadoro e Roberto Taroni, con, cito testualmente:
“l’intento […] di operare lungo due linee direttrici: la costituzione di un archivio di documentazione di film e video d’artista e la realizzazione di rassegne di installazioni e performances che rendessero conto del clima di ricerca di quegli anni in Italia, in Europa e negli Stati Uniti. L’interesse del centro era rivolto principalmente ad esperienze che si muovevano all’interno della contaminazione e dello sconfinamento dei vari linguaggi con l’intento di ridefinire il territorio dell’arte, i suoi confini, individuandone le linee di tendenza”.
Vale un po’ quello che dicevamo a proposito di Concettualismo. Sicuramente c’erano questioni che erano al centro del dibattito artistico, un’atmosfera, un’aria che si respirava e dunque le influenze ci possono essere state, non credo però di poter dire di aver mai fatto parte di una linea puramente concettuale, e tanto meno di Fluxus. Per me la forma è stata sempre molto importante, laddove invece Fluxus tendeva solo a sfiorarla. Non sto parlando di formalismo, sia chiaro; parlando di forma penso a quel processo in cui un’idea prende la forma che le è propria, al trans-formarsi della forma, al seguirla in questo processo di trasformazione, di continuo mutamento. Per quanto vi possano essere connessioni con altre modalità e con altri artisti penso di aver lavorato sempre preservando una condizione di raccoglimento interiore. La solitudine e il silenzio sono qualcosa di necessario nel mio modo di procedere, per cui sono sempre stato attento a quello che mi circondava, ma non è nella mia natura fare gruppo, stare dentro a un ismo. Le parole che finiscono in quella desinenza mi mettono un po’ a disagio. Il che non vuol dire che non mi piaccia “il fare” e il progettare assieme: Sixto/notes è stato appunto un fare assieme importante. Le intenzioni che ci guidavano erano quelle di interagire con artisti che, pur provenendo da ambiti diversi, erano accomunati dall’essere alla ricerca di nuove modalità linguistiche ed espressive, in una parola all’avanguardia. Il Centro è stato molto attivo per 2/3 anni e poi, come spesso accade in queste tipo di esperienze, si è andato disperdendo, diluendosi in un altro tipo di esperienze. Questo ha che fare con una fluidità che caratterizzava quel periodo storico e che non so oggi se sia ancora rintracciabile nel clima attuale, molto più improntato alle strategie di comunicazione che non allo spirito di ricerca.
Mi può parlare di Restless Matter, il portale in cui lei ha riunito le opere che hanno segnato il suo percorso artistico in dei video. Tra l’altro mi sembra di capire che il video è una costante del suo lavoro …
Il video una volta era una roba pesava molti chili, ho lavorato con questi aggeggi fin dalla loro comparsa, mi sono cimentato sia con la pellicola che con il tubo catodico, e i lavori confluivano in installazioni e performance che erano piene di dispositivi di varia natura utilizzati, spesso e intenzionalmente in maniera impropria. Video capovolti, proiezioni attraverso gli specchi in modo che l’immagine fosse riflessa sul pavimento, oppure su superfici liquide e altro ancora. Questa sperimentazione ha caratterizzato i miei lavori degli anni ‘70, poi ho un po’ lasciato da parte questo tipo di linguaggi per concentrarmi su modalità maggiormente canoniche dell’arte, per le quali ho sempre avuto una forte attrazione e, a proposito di solitudine, più “solitarie”. Tutto ciò che ha a che fare con la tecnologia è stato sempre per me molto attrattivo, ma anche molto stressante: per quanto puoi padroneggiarla, la tecnologia ti sfugge sempre. Nel mio lavoro d’artista il ventaglio dei linguaggi è sempre stato aperto e continua ad esserlo: le idee da cui i miei lavori prendono origine sono fissazioni, ossessioni; le devo declinare in linguaggi diversi perché devo sentir cantare con voci e intonazioni differenti una stessa melodia. Restless Matter è una materia inquieta che continua ad esserlo, dunque riprenderò quella piattaforma su cui ho messo una serie di video che prendono origine da alcune mie opere, ma hanno però una loro autonomia, non sono video di documentazione . Anche le tracce sonore che li accompagnano sono mie. Mi piace molto organizzare i suoni pur definendomi artista e non musicista.
Un altro ciclo di opere che l’ha occupato a più riprese si svolge su un versante completamente opposto alle ricerche che abbiamo citato fino ad ora, ovvero gli affreschi. Lei ha recuperato questa tecnica antica utilizzandola in modo personale, che è strano ritrovare in un artista così tanto contemporaneo come lei, mi può parlare di questi suoi lavori?
Il fascino che l’affresco esercita su di me è lo stesso dell’acquerello, perché sono tecniche che non permettono il pentimento. Il pentimento è un topos della pittura, infatti l’analisi spettrografica di un dipinto ti fa scoprire cosa è stato coperto. Il pentimento nell’acquerello si vedrebbe, così come nell’affresco, a meno che non venga ricoperto con una tecnica a secco. E questo per me è molto affascinante forse per via del il fatto che non ho studi accademici alle spalle. Avrei voluto fare il liceo artistico e mi hanno fatto fare il classico, volevo fare l’accademia e ho fatto l’università… Non ho avuto quindi una formazione prettamente artistica, e ho avuto bisogno di formarmi da autodidatta sulle tecniche. Ho sempre avuto una vera “fame” di tecniche pittoriche e scultoree; è una carattere distintivo di tutto il mio lavoro artistico quello di declinare un’idea in uno specifico linguaggio e se un linguaggio non lo conosco mi “attizza” ancora di più, in quanto mi costringe a trovare il modo di impossessarmi delle tecniche fondamentali. La procedura dell’affresco e dello strappo per riportarlo su tela era, in qualche modo, una performance: era la processualità che mi interessava per via del fatto che lungo il percorso succedono una serie di incidenti sui quali io vado poi a intervenire. In realtà l’incidente è un altro luogo importante del processo artistico. Io tendo a sottolinearlo. L’incidente può essere accolto con fastidio mentre io l’aspetto, lo provoco, perché da lì partono cose su cui poi posso lavorare per anni, si apre una via che poi posso seguire per molto tempo; poi magari non mi porta dove mi aspettavo, quindi torno indietro e ne prendo un’altra. Questa è la ragione per cui credo sia giusto procedere per tentativi, per errori. Io DEVO sperimentare. Questo fa perdere un sacco di tempo, certo, ma di questo non mi curo!
Ci siamo conosciuti in occasione di Silenzio, la mostra che toccava tre chiese di Milano, il chiostro di San Simpliciano, la rettoria di San Raffaele e San Bernardino alle Ossa, come era nato questo progetto legato poi a dei luoghi sacri?
La sacralità è un’altra cosa che mi affascina, e di contro non sopporto più molto i luoghi convenzionali dell’arte. D’altro canto i luoghi dotati di aura hanno di per sé, una suggestione, una capacità evocativa. Parlavamo prima del Collegio Cairoli: quello era un posto in cui l’aura era molto forte; è un aspetto questo a mio avviso fondamentale, che interagisce con l’opera. E quale aura è più potente di quella che vibra in uno spazio sacro? Non è che io mi sia mai interessato in modo specifico all’arte sacra, per quanto mi domando a cosa si ridurrebbe la nostra storia dell’arte se escludessimo l’arte sacra. Non voglio nemmeno enfatizzare la sacralità dell’arte, ma a proposito di site specific quello che mi interessa è che un lavoro possa dialogare, interagire con il luogo in cui si trova, e se questo luogo è denso di significato mi attira e mi stimola.
Ma lei crede?
Io non so niente di Dio… è possibile che lui sappia qualche cosa di me!
Il titolo del nostro Magazine è Art for Breakfast – arte a colazione – e nasce dall’idea che l’arte e la cultura siano il nutrimento quotidiano più importante, spesso consumato di fretta, ma che in fondo ci sostiene di più nelle giornate. Se le chiedessi di scegliere un’opera d’arte con la quale nutrirsi al mattino per vivere la giornata con energia quale sceglierebbe?
Allora se vogliamo fare una colazione consistente dovremmo fare colazione con Piero Della Francesca e la Madonna di Senigallia. Direi che così la giornata potrebbe partire bene. Anche se, per la colazione, qualsiasi “brioche” firmata da Piero va benissimo.
Ha dei progetti espositivi imminenti?
Sono stato invitato all’ultima edizione della Biennale d’Arte Sacra che si svolgerà a Palermo e in altri luoghi della Sicilia, oltre che in Egitto e in Israele. Sarò presente con Mantra, un’opera fatta di 27 piccole tele in cui ho ripreso la tecnica dell’affresco riportato, come d’altronde accadeva per Amen, una delle tre opere collocate in San Raffaele nell’ambito di Silenzio, la mia recente mostra di Milano. Il segno di scrittura, è protagonista assoluto di questo lavoro che è anche un testo, è infatti il frammento di un mantra appartenente alla tradizione vedica. A Maggio Luogo Presunto, l’installazione collocata nel Chiostro di San Simpliciano nell’ambito della medesima mostra di Milano, andrà a Monte Verità per Giardini In Arte. È un luogo questo che conosco bene perché nel 2012, nell’ambito di una mia personale al Museo d’Arte Moderna di Ascona, a Monte Verità, presso Casa Anatta ho riproposto in un nuova versione, Vibractions, la mia installazione sonora del 1978. Monte Verità è un luogo con una straordinaria storia, dove le arti si sono intrecciate con la ricerca dei fondamenti, delle radici, in un contesto caratterizzato da un certo esoterismo, oltre che da uno sconfinamento tra diverse discipline. È sicuramente un luogo dotato di aura come aveva ben compreso Harald Szeemann che a Monte Verità, presso Casa Anatta, ha ambientato una mostra divenuta poi mitica, Le Mammelle della Verità, che è stata ora riproposta in questo medesimo luogo.