Lo scorso giovedì 10 maggio la Triennale di Milano ha ospitato un workshop promosso dall’Università degli Studi dell’Insubria in collaborazione con il Centro Internazionale “Gianfranco Brebbia” per la ricerca e lo studio del cinema sperimentale e la Cineteca Italiana di Milano.
Giornata dedicata al cinema sperimentale degli anni Sessanta-Settanta con particolare riferimento al film del regista varesino Gianfranco Brebbia intitolato EXTREMITY 2 del 1968 di cui, così, si è celebrato il cinquantesimo anno e la prima visione in Italia.
Gianfranco Brebbia, nato a Varese nel 1923 e scomparso nel 1974, era un instancabile sperimentatore nell’ambito cinematografico e utilizzava la cinepresa come “estensione del proprio corpo”.
Le proiezioni sono state accompagnate dalla musica live del duo jazz del Maestro Antonio Zambrini e la voce dell’attore Edoardo Sylos Labini recitante i testi di Brebbia. Esito, una vivificante sinestesia artistica.
Durante il workshop, il Magnifico Rettore dell’Università degli Studi dell’Insubria, professor Alberto Coen Porisini, ha consegnato all’artista Emilio Isgrò il Premio “Gianfranco Brebbia” alla Carriera, un premio erogato annualmente dal Centro Internazionale “Gianfranco Brebbia” a una personalità della cultura che abbia condiviso gli ideali del cinema sperimentale.
Nel 1969 Isgrò coinvolse Gianfranco Brebbia in un progetto cinematografico, ovvero la sceneggiatura di un film cancellato dal titolo La jena più ne ha più ne vuole; lo schermo sarebbe stato coperto da grandi macchie nere come le cancellature dello stesso Isgrò. Il film non fu realizzato, ma diventò una leggenda. L’artista, ospite d’onore del workshop in Triennale, è stato intervistato da Mauro Gervasini, critico cinematografico e docente all’Università dell’Insubria.
Isgrò, assumendo la cancellatura per un verso come interruzione della comunicazione e per l’altro – come egli stesso ha affermato – come “una forma di omeopatia nei confronti dei censori”, e in merito alle proprie cancellature ha precisato che sono: “un controveleno. Cancello io perché non cancelli tu, è questa la morale”.
Brebbia era stato coinvolto nel film mai realizzato come direttore della fotografia. In archivio – accuratamente schedato dall’archivista e paleografo Giovanni L. Dilda – vi è traccia di questo coinvolgimento assunto da Brebbia come una sfida e una conferma della sua stessa sperimentazione. Una sperimentazione che lo aveva spinto a intervenire direttamente sulla pellicola super8 dei suoi cortometraggi. Al tempo stesso, egli doveva essere interessato al ruolo che avrebbe assunto la macchina da presa cinematografica, dal momento che i suoi strumenti abituali di lavoro erano, per lui, parte di sé, fino a giungere ad essere compartecipi della designazione di una spazialità sia interattiva che topologica.
Personalmente sono attratta dall’esito fotografico e filmografico di questo filmaker, che concepisce come articolazione di sé i veicoli tecnici, attribuendo così a questi ultimi una identità provocatoria, che rompe con la tradizione. Sono altrettanto interessata proprio da questo suo intervenire direttamente sul supporto, che conferisce un valore aggiunto a questa corporeità visiva. Vi è allora una qualche consonanza con il lavoro artistico, con la poetica del maestro Emilio Isgrò.