A colazione con Enrico Cattaneo: la fotografia come alternativa al banjo

Entrare nell’abitazione di Enrico Cattaneo (Milano – 1933) è come accedere a una casa museo dove ogni pezzo, ogni opera, ogni fotografia appesa alle pareti racchiude una storia, un incontro, e un pezzo di vita di questo grande fotografo, che dagli anni ‘60 ha ritratto tutta la scena artistica milanese. Ci sono entrata in punta di piedi, con l’idea di fare una semplice intervista, con appena dieci domande, ma la mia curiosità e la generosità di Enrico hanno fatto sì che piano piano le domande diventassero sempre di più. Ho passato ore a cercare di tagliarla, di renderla quanto più possibile un’intervista snella, ma i racconti, le storie, il tono di questa lunga conversazione, non riuscivo a eliminarli dalla mia testa, e così, alla fine, proprio come un reportage, ho deciso di mantenerla intatta, autentica. L’intervista, in questo caso, più che essere accompagnata, accompagna il racconto fotografico di Fabio Mantegna, che nel 2017 grazie proprio a un reportage su Cattaneo ha conquistato il Premio Dondero per la fotografia. Il pretesto del nostro incontro? Take Away, l’evento che si terrà il 22 maggio alla Fondazione Mudima di Milano, durante il quale con una piccola donazione, che sarà devoluta alla Fondazione Parole di Lulù, ci si potrà portare a casa le fotografie che Cattaneo ha conservato durante tutta la sua carriera.  

Iniziamo subito dalla genesi del suo percorso, quando inizia la sua passione per la fotografia?

Ho iniziato grazie a mia madre, mi regalò la macchina fotografica perché ero stato promosso al liceo. In realtà, siccome mi appassionava molto la musica dixieland e blues country, avevo chiesto un banjo per la promozione, tutti noi amavamo questo strumento. Lei andò in giro per rigattieri a cercare “un banjo” e i rigattieri dicevano “ma cos’è un banjo?” E allora gli proposero una macchina fotografica. Io pensai “meglio di niente” e lì ho cominciato a fotografare. Eravamo alla metà degli anni ‘50.

Quindi per un fatto del tutto casuale?

Sì! Probabilmente se avesse trovato il banjo avrei fatto il musicista.

Lei ha iniziando fotografando le periferie di Milano che mi ricordano un po’ quelle che fanno da sfondo a Rocco e i suoi Fratelli di Visconti o al Posto di Ermanno Olmi… come è passato dalla periferie alla fotografia d’arte?

Il salto dal banjo a lì, anche se solo di 5-6 anni, è enorme. Iniziai a frequentare i fotoamatori evoluti, i quali facevano quello che io e qualche amico chiamavamo “del pittoricismo”, cioè una fotografia molto accurata, molto pittorica. Io e qualcun altro facevamo invece una fotografia più di tipo sociale e affrontavamo anche la cronaca, qualche volta. Dello stesso periodo esistono le foto della prima alla Scala, degli scioperi, e roba di cronaca che i fotoamatori non facevano. Nel frattempo frequentavo ancora la facoltà di ingegneria al Politecnico. Guardavamo effettivamente alla cinematografia dei neorealisti, oltre che ai realisti esistenziali. Il posto di Ermanno Olmi o la Notte di Antonioni, Rocco e i suoi fratelli, erano i nostri punti di riferimento, e come scrittori c’erano Elio Pagliarani e la vita agra di Luciano Bianciardi. Le atmosfere insomma erano quelle: nebbiose.

Era più facile accedere ai giornali per un giovane fotoreporter?

Sì però il tutto si fermava tutto lì! (ride – ndr) Nel senso che ti davano 4 lire e quando arrivavi a Chiasso non eri più nessuno, perché all’estero c’erano già grandissime testate come “Life”, con grandissimi fotografi e grandissime disponibilità, gli italiani erano tagliati fuori.

Ma lei voleva farlo il fotoreporter?

Beh, tutta la mia generazione avrebbe voluto fare il fotoreporter. Io fisicamente come fotoreporter d’assalto mi ci sono sempre visto abbastanza poco

Cosa l’ha portato poi alla fotografia d’arte?

È  stato casuale. Facendo un lavoro sulla vecchia Milano di Corso Garibaldi e dintorni incontrai la gente che frequentava Brera e il Jamaica. Io non l’ho mai frequentato perché c’era questa disparità tra chi lo frequentava, principalmente i pittori nucleari, e gli altri che erano i realisti esistenziali, che erano tutti usciti dall’Accademia e avevano avuto come maestro Achille Funi. Siccome le mie foto di periferia, di atmosfere, erano abbastanza simili, solo le atmosfere sia chiaro, alle immagini di Sandro Luporini, Giulio Scapaticci, Gianfranco Ferroni e Vaglieri Banchieri, son diventato molto amico di questo gruppo. Solo che a un certo punto si son scocciati della mia presenza costante, e hanno detto “invece di rompere le balle con la tua macchinetta del cavolo e fotografare cosacce che non servono a nessuno perché non fotografi i nostri quadri?” E allora, per fargli un favore, mi sono messo a fotografare i loro quadri.

Un secondo caso in realtà…

Eh si! Da quel momento lì non ne sono più uscito!

In seguito lei ha iniziato a lavorare per le gallerie…

Sì. Dicevano “c’è un pirla, un ragazzotto che fotografa abbastanza bene e non costa un cazzo, te lo mando?”. E allora andavo alle galleria a fotografare, soprattutto la Galleria delle Ore e la Galleria Bergamini. Poi Marconi, l’Ariete, la Galleria Milano di Carla Rocca Pellegrini, lo Studio Bellora e l’Apollinaire di Guido le Noci.

E la chiamavano appositamente?

No non mi chiamavano un tubo! Ci andavo io e fotografato solitamente i vernissage, con la gente che ride, mangia e beve.

Parallelamente al suo lavoro di fotografo degli artisti lei ha approfondito una sua fotografia d’arte, cosa è nato prima e come l’ha sviluppata?

Beh già i paesaggi che fotografavo non erano di documentazione, ma già interpretazione. Lì sono abbastanza vicino alle piazza d’Italia di De Chirico, ai paesaggi di Tanguy, erano i miei autori preferiti e per cui quella documentazione che esiste, è solo apparentemente documentazione, perché in realtà non me ne fregava nulla di documentare il paesaggio. Quindi già le periferie e le discariche strizzano l’occhio alle opere d’arte, anche senza rendersene conto. E poi piano piano ho cominciato a conoscere gente “pesante” che mi ha stimolato. Non buttavo via gli scarti di camera oscura, li tenevo da parte perché, strappandoli, ti viene in mente “cazzo bello quello” e li tieni da parte. Quelle robe lì, le Pagine, sono state in cantina per una decina d’anni perché frequentando Rotella e Villeglé mi sentivo molto in ritardo. Eravamo nel ‘70, il Nouveau Réalisme era del ‘60: mi sentivo estremamente in ritardo.  

Ecco appunto il Nouveau Réalisme, lei dal ‘73 vive in una casa famosa legata a questa corrente che nel ‘70 festeggiò qui i suoi Funerali in occasione del Decennale, oltre a condividerci l’abitazione ha anche qualche ricordo particolare?

Sì, la grossa opportunità fotografica è stata quando festeggiarono appunto il Decennale, con la grande cena al Biffi, quando ci fu la performance di Tinguely in Piazza Duomo, Niki de Saint-Phalle e César in galleria Vittorio Emanuele e Christo che doveva impacchettare la statua di Vittorio Emanuele II.  Ecco questa è una bella storia! Io l’intervento di Christo me la son perso! Non l’ho fotografato per colpa del Pinelli (Pino – ndr), con cui stavo lavorando in via Fiori Chiari. Dissi “devo andare via, devo andare a fotografare Christo!”. Lui continuava a dirmi “ancora un attimo, ancora un attimo, finiamo ancora una cosa”, così mi sono perso la performance! Poi però ho fotografato il rifacimento in Piazza Scala con l’impacchettamento della statua di Leonardo. Per piazza Duomo purtroppo arrivai in ritardo, i monarchici gliel’avevano fatto togliere subito.

Tra i fotografi d’arte della scena milanese sicuramente tutti ricordano Ugo Mulas, di poco più grande di lei, qual era il suo rapporto con lui? Ha riscontrato delle differenze nelle vostre modalità di lavoro?

Sì con Mulas non avevamo una generazione di differenza, solo che lui aveva iniziato a fare il professionista molti anni prima. Già nel ‘70 Mulas era una celebrità mentre io ero, se non l’ultimo, quasi. Guido Le Noci, quando i fotografi premevano per entrare all’ultima cena al ristorante Biffi, fece entrare solo me e Ugo Mulas, eravamo gli unici fotografi italiani. Ti dico una cosa tanto per darti un’idea del rapporto che avevo con Mulas. Io arrivai lì e non avevo nemmeno un rullino perché venivo da un’altro lavoro e li avevo finiti. Allora mi sono ricordato che, mesi prima, ne avevo prestato qualcuno all’Ugo e quella sera glieli ho richiesti. Lui disse “cazzo proprio stasera”, però mi diede 4/5 rullini con cui feci il lavoro. Se non era per lui quel lavoro non l’avrei fatto.

Vi eravate conosciuti lavorando?

Sì, ci ritrovavamo praticamente in ogni galleria, frequentavamo gli stessi posti e la stessa gente, è un rapporto che abbiamo coltivato per tutta la vita. Un altro episodio legato all’Ugo è quando fece Campo Urbano (Interventi estetici nella dimensione collettiva urbana – 21 settembre 1969 – ndr), la manifestazione organizzata da Luciano Caramel a Como. Fecero un grosso manifesto dove c’era scritto “fotografie di Ugo Mulas” e non c’era il mio nome. Mi incazzai e alla fine non ci andai, commettendo un grandissimo errore perché è un buco enorme nel mio archivio.

C’era differenza nel vostro modo di lavorare?

L’approccio era completamente diverso. Mulas non ha mai fatto il dilettante, mi raccontava che la prima foto che aveva scattato è perché l’aveva venduta. Io, Gianni Berengo Gardin  e lo stesso Gabriele Basilico proveniamo tutti dal dilettantismo.

Lei scattava tanto?

Con quello che costava la pellicola col cavolo che scattavo tanto! Quando fotografi magari scatti sulla stessa situazione 7-8 immagini, e  solo dopo aver sviluppato il rullo e fatto i provini scegli quella “giusta”, però, stranamente, d’istinto, sai qual’è lo scatto migliore e quando guardi i provini la prima che vai a cercare è proprio quell’immagine lì. Qualche volta c’era, qualche volta no.

Ha fatto mai qualche errore grave?

Sì qualcuno sì, però non ho mai bruciato un rullino. Sono una vergine molto attaccata con i piedi per terra, prima di spostare qualcosa ci penso tre volte! Le ho sempre sviluppate io le mie foto, era un’esigenza obiettivamente non hai soldi per avere uno stampatore. La mattina dovevi decidere se mangiare o comprare il rullino!

E questa è stata una costante nella sua vita?

Eh praticamente sì!

E tutte le opere che ha a casa quindi sono tutti regali per lavori non pagati?

Eh quasi tutti. Se mi avessero sempre pagato a questo punto sarei miliardario. Non sono un impiccio certo, però se penso che mi sono costate la vita… Hai idea di quanti notti ho passato in camera oscura compreso Natale, Capodanno e Pasqua?

C’è qualche artista che le è rimasto impresso, sia in negativo che in positivo?

Sì anche se io ho sempre lavorato a tutto campo, a differenza di alcuni miei colleghi come Giorgio Colombo, che si focalizzava sull’arte povera. Ho fotografato indistintamente da Guttuso ad Shusaku Arakawa. Penso che quando fai il professionista e lavori con questa gente non devi prediligere uno rispetto all’altro, sennò ti impegni di più su quello che ti piace e trascuri il resto, che da un punto di vista professionale è un grosso errore.

E ha mai litigato con qualcuno?

No, non ho mai litigato…Ah sì una volta ho litigato con Kounellis alla Biennale di Venezia del 1967 dove esponeva il pappagallo. Io arrivo lì e fotografavo tutto, perché di solito alla Biennale mi mandavano le case editrici come Mondadori o D’ars. Altre volte non ero legato a una testata, ma ci andavo lo stesso, dovevo esserci sennò che cazzo di fotografo d’arte ero? Kounellis diceva che le sue opere andavano fotografate solo dagli esperti d’arte, al che aveva attorno Pierre Restany e io dico “Come non posso fotografare è un luogo pubblico, io sono autorizzato a fotografare per cui fotografo quello che voglio!”. Successe un casino! Alla fine arrivò Antonio Del Guercio e mise pace, dicendo che io ero abbastanza esperto per scattare quella fotografia. Il divertente è che io prolungavo la lite volutamente, perché intanto il mio assistente fotografava l’opera di Kounellis!

Qualche altro artista su cui ha qualcosa da raccontare?

Beh Staccioli. L’ho seguito da prima ancora che iniziasse a fare lo scultore.

Eravate amici?

L’ho inventato io lo Staccioli!!! Nell’ambiente erano un po’ tutti di sinistra o estrema sinistra escluso il Mauro, che era un PCI puro, e un giorno Giacomo Spadari mi presenta un ragazzo dicendo “è un bravo scultore dovresti fargli delle foto”, eravamo a una mostra di Guttuso. Allora una sera mi telefona e mi chiede di andare a fotografare le sue cose. Io pensavo “ma chi me lo fa fare son stanco”. Mia moglie mi fece pressione dicendo: “perché non vai a fotografare uno sconosciuto? chi ti credi di essere?”. Allora caricai le macchine e andai allo studio dello Staccioli. Aveva costruito un gabbiotto sul terrazzo e lavorava con il cemento. Andai di notte illuminandoli con la luce artificiale, avevo un fondo scuro: era come lavorare con un fondo compatto lasciando il primo piano illuminato. Insomma feci delle fotografie di notevole impatto. Quando stampai le foto Mauro era molto soddisfatto. Così andò da Tolinelli a fargliele vedere per mostrargli il suo lavoro, e lui rimase colpito dalle fotografie e gli fece la mostra con un catalogo e le mie foto. Da lì è nata una grande amicizia, l’ho seguito per tutta la vita.

Come si realizza un reportage e come si chiude? In poche parole come si fa a capire il numero di scatti necessari per carpire e restituire una storia?

Non lo stabilisci prima. Quando lavoravi per un giornale, ti mandavano a fotografare una situazione e alla fine facevi al massimo due rullini, tanto sapevi che bene che ti andava ti compravano una fotografia, quindi si andava a risparmio. Quando lavori per conto tuo il discorso è completamente diverso, scatta prima l’idea che precede così la realizzazione. Ma anche le foto che tu scatti le hai già costruite mentalmente, lo scattare nel migliore dei casi è solo la realizzazione di quello che il tuo cervello ha già creato, e quando l’esito finale è il 70% – 80% di quello che tu hai pensato, allora hai fatto il tuo capolavoro. Un reportage è come quando scrivi un romanzo. La cosa più difficile sono l’apertura e la chiusura, e lo stesso vale anche per una sequenza fotografica. Guarda l’ultimo catalogo sulla mostra conclusa da qualche giorno alla galleria Scoglio di Quarto (Enrico Cattaneo, Cronaca di un processo, 17/04-11/05 2018 Galleria Scoglio di Quarto – ndr). Qui ho raccontato una storia attraverso dieci fotografie degli anni Settanta delle sculture nella gipsoteca di Forte Dei Marmi. Guardandole ho immaginato un processo. Con il pubblico, la parte d’accusa, la sentenza, il condannato. Avevo fatto centinaia di foto e poi guardando i provini mi è venuto in mente di ricavarci una storia. L’avevo fatto anche per la mostra Magneti Marelli: racconto del 2016 nella stessa galleria. Avevo fotografato la fabbrica abbandonata della Magneti Marelli, che mi ricordava una collettiva di Arte contemporanea. Vedi che compaiono forme che possono essere di Fausto Melotti, Gianni Colombo o Gianfranco Pardi?

Lei fin da subito ha iniziato ad archiviare le sue foto?

Per fortuna sì! Infatti è l’unico archivio che è facilmente usufruibile.

Era una sua attitudine all’ordine o capiva che stava fotografando un momento storico importante?

No, questo non lo capisci. Lo fai perché lo fai. Tanto è vero che ho archiviato anche le foto del gatto.

L’ultimo scatto che ha fatto se lo ricorda?

L’ho fatto con Fabio nel 2015 per la mostra della Mono-Ha alla Fondazione Mudima, la sera dell’inaugurazione.

Fabio a questo punto interviene nel discorso:E ti ricordi quando mi aiutavi a fotografare le opere dandomi consigli su come scattare?”

E tu accettavi i miei consigli? 

Io in realtà non è che amo molto fotografare un quadro o una scultura messa così, da sola, in una mostra. Lo si fa perché occorre anche farlo. Ma se non c’è una persona che interagisce mi interessa poco.

Le interessava quindi la figura umana?

Mi interessa sempre la figura umana.

Lei ne ha fatti tanti di reportage, ma è stato anche soggetto di un reportage, con il quale ha fatto guadagnare a Fabio Mantegna, che mi accompagna sempre in questi incontri, il Premio Dondero per la fotografia 2017. Le chiedo quindi come è essere soggetto di un reportage e passare dall’altro lato della macchina fotografica?

Un po’ come adesso, lui fotografa e io me ne frego. Mi presto, basta che non rompono le balle.

Ha avuto allievi?

Qualcuno, che è durato anche molto poco. Ripeto sono una vergine, se una matita è qui deve rimanere qui, e la voglio ritrovare qui! E se sono cieco devo allungare la mano e trovare la matita.

Ma rifarebbe il fotografo?

No! Non ne ho più le forze fisiche.

Suonerebbe il banjo?

No neanche.

E che lavoro farebbe?

Il matematico.

La matematica l’ha sempre attratta molto?

No! Ero un cane. Credo di avere 2-3  18 in matematica 1, 2, 3. La passione per questa scienza è venuta quando ho scoperto che certi matematici sono stati i più grandi artisti che la nostra civiltà abbia mai creato.

Quindi dall’interesse artistico è venuto quello matematico?

In un certo senso sì. Cioè quando vedi una dimostrazione, tanto per fare un esempio, di Euclide di 3000 anni fa ti si rizzano i capelli in testa, e dici “come cazzo ha fatto a fare una cosa del genere?”. E parliamo di Euclide, non dei più moderni.

Che poi la matematica che amo è la matematica pura, cioè la teoria dei numeri, mentre invece la matematica degli ingegneri è quella che serve per costruire un ponte e di cui non me ne frega niente. Mentre i lavori  della gente che amo non sono mai serviti a nulla. Escluso uno che, partendo da idee di Kurt Gödel, matematico filosofo dell’inizio ‘900, ha cominciato a elaborare le sue teorie: si chiamava Alan Turing che ha inventato queste cazzo di macchine qua (indicando il mio computer sulla scrivania – ndr). A forza di giochettare con i numeri  ha cambiato la nostra società.

Lei non ha un buon rapporto con la  tecnologia…

No.

Non le piace?

Mah mi annoia, ma anche le macchine fotografiche mica le so usare! Quando so che c’è il bottone di scatto, che quello lì manovra il diaframma e quello i tempi di esposizione, tutto il resto non me ne frega niente.

C’è una foto che avrebbe voluto scattare?

Non direi…Beh forse una fotografia sulla luna.

Voleva andare sulla luna?

No perché volevo fotografare il paesaggio lunare, ma avrei potuto rimediare anche fotografando pezzi del deserto.

Il paesaggio è proprio una cosa che le interessa?

Mi interessa l’assenza di…

Della figura?

Ma non è neanche…Mi interessa l’atmosfera del paesaggio, in cui potresti metterci dentro qualcosa e invece non ce lo metti… non so spiegartelo però.

Il 22 di maggio inaugurerà alla Fondazione Mudima Takeaway, un evento di beneficenza in cui sarà possibile tramite un’offerta appropriarsi dei suoi scatti, e il cui ricavato sarà devoluto a “Parole di Lulù”, ci vuole parlare di come è nato questo progetto?

Sono molto contento! Mi libero di 5000 fotografie. Sono anni che avevo questo progetto. Oggi mi ha chiamato Roberto Mutti tutto entusiasta ha detto “Finalmente realizzi una cosa che volevi fare da 20 anni”. Siccome sono come i contadini che non buttano via mai niente, ho sempre conservato gli scarti della camera oscura, alcuni son finiti alle pareti, ma i provini, i ritagli, le copie che un altro avrebbe buttato io li ho tenuti e, in 20 e 30 anni, sono diventate una montagna. Non l’avevo mai realizzato perché è sempre mancata l’occasione, poi Gino Di Maggio è venuto a trovarmi e questa idea si è concretizzata.

Mi sono infognato in una situazione che solo a pensarci mi si drizzano i capelli in testa! Però sono molto soddisfatto che il ricavato sarà devoluto alla Fondazione Parole di Lulù, fondata da Niccolò Fabi e Shirin Amini, che promuove progetti per l’infanzia attraverso il sostegno a strutture che tutelano la salute dei bambini e l’organizzazione di attività ludiche ed educative per accompagnarne la crescita, così so che i soldi sono usati davvero per una causa valida.

Quello che mi interessa poi è il casino che ne verrà fuori, con fotografie da tutte le parti.

Le piace questo aspetto del caos?

Sì moltissimo!

Le piace perché poi le vuole rimettere in ordine da buona Vergine come le matite?

No, lo amo perché è proprio il contrario, la distruzione totale dell’ordine.

Quello che mi terrorizza è che comincerà ad arrivare della gente con le foto in mano e mi chiederà chi sono le persone raffigurate, molti sono l’unico a ricordarli.

E le cassette che ha dietro? Tutto jazz?

Sì tutto jazz! Dal primordial jazz d’avanguardia. Ma siccome non avevo i soldi registravo le cassette dai compact del nipote che se li comprava. Ma anche qui mica uno scherzo! Te ne prendo una qualsiasi e ti faccio vedere. Per ogni cassetta scrivevo tutti i pezzi, l’autore, la durata, l’anno di incisione, qualche volta il posto di incisione, e poi tutta la formazione.

Torniamo alla fotografia, le immagini che guardavamo prima, le morandiane, in cui lei imitava l’acqua forte come sono nate?

Quelle immagini sono della fine anni ‘80. In generale ho sempre preso ispirazione dai classici, come i pittori fiamminghi e Morandi. Quel tipo di foto lì parte dal titolo. Prima mi invento il titolo e poi lo realizzo, che non è una cosa nuova: Man Ray, ad esempio, spesso dà più importanza al titolo che all’immagine. I titoli erano Le fotografie del tubo, Natura morta dei miei stivali, Una rottura di scatole; avrei dovuto fare le Mie borse sotto gli occhi, ma non l’ho mai realizzato. La tecnica l’avevo utilizzata quando feci il lavoro alla prima della Scala: usavo una pellicola non molto rapida che se sviluppata molto a fondo potevi esporla anche a condizioni di luce disastrose. Per cui la sviluppavi invece che per 5, per 20 minuti, magari a 30 gradi e ottenendo un’immagine appena appena leggibile sul negativo, e con una grana molto grossa quando la ingrandivi. Anni dopo ho cercato di rifare la stessa cosa, ma le pellicole attuali non hanno quella grana lì, perché hanno i granuli d’argento orientati per cui la grana è molto inferiore, però tirandole abbastanza l’immagine esce a punti e ricorda un’acquaforte con bulino.

La fotografia in basso a destra con una natura morta in un ovale è una delle fotografie della serie delle morandiane.

Mi faceva vedere anche i paesaggi in cui la pellicola è impressionata solo mediante gli acidi…

Sì le chiamo Chimifoto. Per realizzarle utilizzavo solo la carta fotografica e gli acidi tradizionali da camera oscura. Gli ultimi invece, le Germinazioni, sono fatte con acidi di altro tipo. Queste le ho realizzate utilizzando una carta fotografica che la Kodak ha prodotto solo per pochi anni, cioè una politenata abbastanza spessa, perché se usi degli acidi di questo tipo sulle politenate normali te le buca. Solo che la kodak ha smesso di produrlo, ma io ne avevo conservata, siccome conservo tutto, una scatola intera.

Cosa l’ha spinta a cimentarsi con questo tipo di lavori?

Il desiderio e l’impulso a fare certe cose è voler raccontare. Certi lavori, non solo miei ma di altri, hanno una grossa componente autobiografica, ad esempio uno scrittore quando realizza un romanzo. Insomma con il pennello, con lo scappello, con la macchina fotografica racconti, racconti sempre.

Quindi queste sono le sue autobiografie?

In un certo senso sì, ci ritrovi la storia del Natta (Giulio – ndr) quando lavoravamo in laboratorio con gli acidi e le provette alla facoltà di Ingegneria al politecnico.

Enrico mentre mi mostra il catalogo della mostra Germinazioni, tenutasi allo SPAZIOTEMPORANEO nel novembre 2017.

Lei è una persona curiosa?

Sennò non fai il fotografo! La curiosità è quello che ti spinge. La curiosità di vedere quello che succede. 99 volte su 100 succede.

99 su 100? Ne è sicuro?

No, ma comunque la metà: magari hai un’idea, ma poi per ragioni varie spesso non è realizzabile o non lo è tecnicamente, oppure perché l’ha già fatto qualcuno prima di te.

Ha qualche consiglio per chi si occupa di fotografia d’arte?

Quando fotografi un artista che non conosci la prima cosa che devi fare è vedere i suoi cataloghi precedenti. Se non capisci in parte prima l’uomo la foto sarà tecnicamente perfetta, ma senza anima. Se non capisci il lato umano non farai una buona fotografia. Certa gente con cui lavoravo mi diceva “fai la foto alla scultura” e mi metteva le sculture nello studio e andavano via. E tu davanti alla scultura come fai a stabilire qual è il punto frontale di visione? Guardi come lo scultore l’ha poggiata sul tavolo!

Questo l’ha imparato dopo le tante volte in cui è rimasto solo con le sculture?

Si vede come la porta in mano, come appoggia “il pezzo” in un posto, non l’appoggia casualmente, lo mette nella giusta posizione, senza rendersene conto, perché lui ne vede la visione principale e tu, vedendo come lui la mette capisci che quello è il punto giusto per fotografarla. Ma son cose che impari con l’esperienza.

Le capita mai di riguardare le sue fotografie degli esordi e di criticarsi?

Sempre, è fondamentale. Considera che tutte le foto possono essere migliori. Qualche difetto lo trovi sempre.

Non credevo nella vita di poter incontrare qualcuno che fumasse più di mia madre, e invece Enrico Cattaneo ha battuto ogni record .

 

Ringrazio Enrico Cattaneo per avermi accolto nella sua abitazione e Fabio Mantegna per aver supportato e promosso questa conversazione con un uomo straordinario dallo uno spirito cinico, sarcastico e giocoso come quello di un bambino. 
Credits
Tutte le fotografie inserite nell’intervista sono state realizzate da Fabio Mantegna ©.