Proseguendo con le interviste che abbiamo tenuto durante la 9° edizione di Affordable Art Fair questa è la volta di Emiliano Ponzi (1978, Reggio Emilia) tra i più importanti disegnatori italiani contemporanei. Il suo lavoro, basato sull’uso di texture, linee grafiche ed essenzialità, è stato protagonista dello stand di Illustrazioni Seriali, il progetto ideato da Chiara Pozzi nel 2017 nato per valorizzare l’illustrazione contemporanea, che lei stessa definisce come “luogo di documentazione e ricerca”.
Non uno spazio inteso, quindi, secondo le logiche di una galleria, ma nato proprio dall’esigenza di documentare la scena dell’illustrazione contemporanea. Le immagini di Emiliano compaiono su pubblicità, magazine, libri, quotidiani, animazioni e chi più ne ha più ne metta! Tra i suoi clienti il “The New York Times”, “Le Monde”, “The New Yorker”, “The Economist”, la casa editrice Penguin books, “La Repubblica”, Feltrinelli, “Il Sole 24 Ore” e Mondadori.
Ecco il testo integrale della stimolante e ironica conversazione che abbiamo tenuto in fiera sabato 26 gennaio con Chiara e Emiliano.
Partiamo subito con Chiara, ci vuoi raccontare come è nato il tuo progetto e come è avvenuto l’incontro con Emiliano Ponzi?
Le motivazioni per cui avevo deciso di intraprendere questo progetto e fondare il blog sono principalmente due. La prima è legata alla passione personale per l’illustrazione, una categoria dell’arte che ho sempre seguito con particolare attenzione pur lavorando nel settore dell’arte contemporanea da tanti anni. La seconda motivazione è legata al desiderio di portare l’illustrazione sotto i riflettori e condurla a un livello di attenzione pari a quello dell’arte contemporanea. Considerarla, quindi, come arte con la A maiuscola, e non di secondo livello. Nel 2017 decido quindi di fondare un blog, che è diventato un raccoglitore di esperienze legate al mondo dell’illustrazione e ai protagonisti attivi di questo mondo, che è molto appassionante, vivo e seguito. Nel 2018 è stata Manuela Porcu (direttrice dell’Affordable Art Fair) a contattarmi per chiedermi di seguire una sezione speciale della fiera, che sarebbe stata dedicata all’illustrazione. Sinceramente non ho avuto dubbi sugli artisti che avrei voluto presentare in fiera tra cui appunto c’è Emiliano Ponzi, di cui seguo il lavoro da moltissimi anni. Ci siamo conosciuti recentemente e per questo appuntamento sapevo che puntando su di lui avrebbe presentato qualcosa di anomalo, e così infatti è stato! Partendo dal nome del blog “Illustrazioni seriali” Emiliano ha realizzato la serie It’s not good enough, con opere originali su carta, ponendosi proprio in maniera antitetica rispetto al concetto di serialità, dimostrandoci che ogni lavoro è frutto di un impegno ossessivo alla ricerca di una perfezione che forse non esiste, o che comunque è molto difficile da raggiungere. Quindi la serialità non corrisponde alla non unicità, ma nella produzione di disegni che sono, nella realtà, sempre unici.
Emiliano per chi non ti conosce vuoi raccontare come hai mosso i primi passi nell’illustrazione e come è nata la tua passione per il disegno?
Io ho iniziato con l’illustrazione ormai 20 anni fa, nell’era pre-internet, quando c’era un mercato meno globale di quello attuale. Si inizia facendo la gavetta, cercando di capire il proprio ruolo in un mercato, individuare il proprio tono di voce. Per cui ho iniziato con la mia ricerca personale, inviandolo poi alle persone che potevano darmi un lavoro per intraprendere la carriera di commercial illustration per i magazine, l’animazione, la pubblicità, in quanto per fare l’illustratore occorre considerare che è sempre necessaria una committenza. La cosa interessante dell’illustrazione, che forse in pochi sanno, è che tutti i grandissimi artisti del passato, Leonardo, Michelangelo, Raffaello, erano, in qualche modo, illustratori, in quanto erano tutti legati a un committente. Tutto quello che chiamiamo oggi arte era in realtà illustrazione, in questo gioco di “diamo un nome alle cose”. L’interesse che c’è oggi per l’illustrazione è dovuto soprattutto alla grandissima potenza che questa ha di creare mondi da zero. Oggi, infatti, si utilizza più della fotografia, perché questa nasce sempre da un dato reale creato ad hoc, ed è più difficile, invece, creare un mondo completamente da zero. Con l’illustrazione tutto è possibile: è come un palcoscenico in cui possiamo scegliere la scenografia, la coreografia, gli attori e lo spettacolo da mettere in scena. L’illustratore è un problem solver, è qualcuno che veicola un messaggio, un imput che parte dal cliente, e lo filtra, facendo passare il messaggio attraverso di sé e assumendo così un tono di voce che è a metà strada tra quello che il cliente vuole e la nostra personale visione del mondo.
Emiliano hai citato dei grandi artisti del passato, per riallacciarmi a questo, se fossero ingredienti come descriveresti la composizione delle tue influenze artistiche?
La cosa interessante è che io ho fatto un percorso un po’ particolare. Fino a circa 20 anni non avevo mai usato i colori, quando i miei colleghi studiavano all’Istituto d’arte o al Liceo artistico io facevo il Classico. Ma mi appassionava il disegno e quindi a Ferrara, dove sono cresciuto, seguivo dei corsi di fumetto o acquerello al pomeriggio, in un posto incredibile, vicino al cimitero ebraico. La notte attraversavo una stradina in mezzo alla campagna per arrivare in una baita scaldata con una stufa al cherosene, insieme a 5-6 signore over sixty. Per questo ritengo interessante come le cose poi si sviluppano nella vita, non occorre porsi troppi problemi sul proprio percorso. Anche attraversando il cimitero ebraico di notte, in mezzo alla nebbia di Ferrara, si può giungere dove si vuole, occorre solo la voglia di conseguire i propri obiettivi. Detto questo, i grandi maestri li ho incontrati in età più tarda rispetto ai miei colleghi, e sono i grandi dell’illustrazione americana come Brad Holland, Istvan Banyai e Lorenzo Mattotti, che è uno dei più grandi illustratori italiani che abbiamo esportato nel mondo, Igort un grande fumettista e anche un amico, e poi David Hockney, Alex Katz, e tutta quella che è la tradizione della pittura figurativa americana, che viene poi da David Hopper, anche lui nato come illustratore. Per cui di influenze ce ne sono tante e sono continue, perché siamo bombardati di immagini e, quindi, di imput.
Tu vieni da un piccolo centro, Ferrara, quindi hai poi avuto modo di approfondire i tuoi studi allo IED di Milano, credi che il contesto culturale e artistico italiano attuale ora lascia spazio alla formazione degli illustratori?
Io mi sono iscritto allo IED nel ‘97. Per i giovani che volevano intraprendere una carriera simile alla mia c’erano solo lo IED o l’Accademia di Belle Arti, oppure i corsi amatoriali. In seguito il sistema delle scuole d’insegnamento per l’immagine è esploso; attualmente credo che la migliore scuola sia il Mimaster illustrazione, una nuova formula che presuppone di avere studenti già capaci, nata con l’intenzione di collegarli al mercato. Questa scuola ospita grande personalità che fanno lavorare gli studenti su progetti reali, che poi vengono proposti sul mercato.
Prima Chiara ci parlava della tua ricerca ossessiva della perfezione, entrando più nello specifico del tuo lavoro quando capisci che un’illustrazione è finita e ti senti soddisfatto del tuo lavoro?
Intanto voglio fare una premessa con un’affermazione che può sembrare strana riferito a questo discorso del disegno: io la cosa che temo di più nella vita è la noia! Mi fa cadere in questo buco nero, quindi mi sfido sempre a tenere sotto stimolo il cervello, perché è un modo per non tenerlo in formalina. Per ogni illustrazione che realizzo tendo a ripetere in continuazione lo stesso disegno, e questo oltre a essere un dato caratteriale ossessivo mio, è un dato oggettivo. Mi spiego meglio: è come quando fai il ragù per la prima volta rispetto a quando lo fai per anno! Avrai calibrato gli ingredienti e sarà molto più buono, sarai quindi stato in grado di gestire e controllare tutto il processo. Per cui il lavoro che ho fatto con Chiara, che ringrazio per questa opportunità, mi ha dato la possibilità di cimentarmi in qualcosa di nuovo, una ciclicità del ritorno al disegnare a mano, come quando ero nella casetta con le signore sessantenni a sporcarci le mani. Nello stand di Illustrazioni Seriali abbiamo voluto anche una parte fotografica di documentazione realizzata da Emanuele Zamponi dove si vede il processo: si parte dal disegno, lo si finisce e si butta via, perché sicuramente quello che faccio oggi è migliore di quello che ho fatto ieri e peggiore di quello che farò domani. Proprio in questa traiettoria di miglioramento continuo, quello che a me fa stare sveglio attivo e produttivo è la tensione alla perfezione, consapevole che è irraggiungibile. Per It’s not good enough sono partito dalla silhouette di una donna e da un fondo, questa donna ha una maglia con un pattern che cambia di volta in volta e la mia ricerca voleva mettere in relazione, in maniera virtuosa, il soggetto con l’ambiente. Per questo ci sono alcune immagini in cui sono molto separati per via della cromia, e altre dove c’è un tentativo di integrazione totale tra la figura e lo sfondo.
In merito proprio a questo concetto della perfezione non raggiungibile in una tua intervista con Marianna Tognini di Luz dicevi di te stesso di essere affetto da una “tossicomania del lavoro”, è questa che ti spinge al miglioramento continuo?
Io aggiungo a tossicomania un bel modo che i giapponesi hanno di relazionarsi con il cibo, ovvero di alzarsi da tavola avendo ancora un po’ fame e quindi quella sensazione di evitare il finito. Avere fame ti porta a cercare di saziarti, un po’ come le tossicodipendenze, questo modo mi permette di essere molto motivato, di fare tanti progetti diversi, mi stimola all’evoluzione di me stesso. Tornando al discorso del cibo se noi mangiamo per un anno il ragù alla fine non ne vorremmo più. Quindi sì, io sono un po’ ossessivo, ma anche molto disciplinato. Le prime ore della mattina sono quelle dove siamo più puliti, meno condizionati da telefonate e email e da quello che ci distrae dal flusso di lavoro creativo. Mi sveglio alle sei e mezza e arrivo in studio alle sette e mezza, lavoro tutto il giorno e, solitamente, metto il telefono in modalità aeroplano per non ricevere chiamate dai clienti. Ma sia chiaro voglio molto bene ai miei clienti, ma per produrre qualcosa che abbia un senso e fare un percorso estetico la chiamata del cliente che guarda il preventivo e mi chiede uno sconto è ovvio che mi porta la testa da un’altra parte. Nei week end cerco invece di mettere la testa fuori, vedere la mia ragazza e i miei amici, ma insomma le mie settimane sono così, una routine molto disciplinata che faccio con gioia proprio per il mio senso di sazietà quando esco fuori dallo studio, ma poi la mattina seguente ho di nuovo “fame”.
Instagram ha sicuramente dato molta visibilità agli illustratori a tutti i livelli, tu cosa ne pensi? Ha effettivamente svolto un ruolo positivo per il vostro lavoro o in qualche modo ha fatto sì che i lavori si influenzassero uno con l’altro portando ad un appiattimento creativo?
I social network sono virtuosi perché consentono di amplificare la tua voce e arrivare più lontano. L’aspetto, invece, vizioso e perverso di qualsiasi mezzo estremamente democratico e amplificatore è che non solo rende tutto uguale, ma ha quasi azzerato la distinzione tra professionismo e amatorialità. È successo anche con la fotografia, quando è approdato il digitale perché improvvisamente tutti erano fotografi, in quanto il mezzo era molto accessibile e quindi ha abbassato inevitabilmente il livello medio della qualità e ha sfumato i contorni degli aspetti tecnici. La stessa cosa è successa all’illustrazione con i mezzi informatici odierni, che permettono una facilità di accesso al mezzo tecnico, alla condivisione e alla divulgazione di ciò che viene prodotto. Questo crea un paradosso di un mondo distopico, dove persone con moltissimi follower hanno pochissima esperienze di lavoro e, quindi, non professionisti si trovano nello stesso contesto di persone che lavorano da dieci anni. Secondo me è ancora un fenomeno in via di assestamento poiché, appunto, la democratizzazione porta sempre, inevitabilmente, all’abbassamento della qualità media.
Le tue figure spesso esprimono un senso di solitudine, ma mi sembrano comunque prive di malinconia, è una sorta di solitudine positiva che ci spinge, e ti spinge, a guardarsi dentro?
Si, c’è sempre stato un condizionamento da Hopper in questo aspetto del mio lavoro, così come da Hockney, nato cresciuto in Inghilterra e poi vissuto in America, che ritraeva i suoi amici. Erano gli anni dell’esplosione dell’Aids, lui era parte attiva della comunità gay e perse molti dei suoi amici per questa malattia. Per un periodo smise con i ritratti e iniziò con i suoi paesaggi alberati dai colori molto pop proprio per elaborare il lutto della perdita. Hopper, invece, aveva questa visione voyeuristica, senza rappresentarsi mai mostrava queste figure sempre ritratte con un occhio esterno, quasi un’impossibilità di accedere anche psicologica, come vedere una festa sempre da fuori. Un romanticismo che porta a stare sempre un passo fuori, ad osservare dall’esterno. In parte questo aspetto si ritrova nel mio lavoro, dove c’è una visione più contemplativa di ciò che accade, quasi una snow globe: guardi qualcosa dal di fuori perché è preziosa e aspetti un attimo prima di entrarci.
Gli illustratori sono legati a una committenza e, quindi, sono invitati a interrogarsi su come rappresentare un determinato tema, ma c’è qualcosa che ti appassiona in modo particolare, temi che più di altri stimolano la tua creatività?
Chi fa il nostro lavoro passa a lavorare dal ”The Economist” o giornali più politici con temi faticosi, attuali, a temi più narrativi, come la copertina di un libro. Io devo ammettere che ultimamente rifuggo le committenze su temi economici e politici perché sono pallosissimi e non mi appassionano molto. Questa è una cosa che viene con la maturità, il tipo di illustrazione di servizio che risponde solo all’esigenza del cliente senza aggiungere nulla e che si consuma molto in fretta nel quotidiano, come delle bellissime farfalle che vedi volare sui prati ma vivono solo un giorno, mi ha stancato. Mi interessa qualcosa di più narrativo, di più ampio respiro, dove c’è anche la possibilità di impattare a lungo termine, per poter affermare il mio tono di voce.
I milanesi hanno la possibilità di ammirare una tua opera alla fermata Tre Torri della metropolitana realizzata per M&C Saatchi e Generali, il tuo primo progetto di arte pubblica…come è stato cimentarti con un lavoro di questo tipo? E, soprattutto, vorresti che il tuo lavoro assumesse una direzione più artistica e, appunto, meno commerciale come dicevi prima, cosa che direi hai iniziato a fare anche con Chiara nel progetto che avete deciso di presentare qui ad Affordable…
Sicuramente il progetto che ho portato qui è un tentativo di sconfinare anche nel mondo delle gallerie e dell’arte, che ha in parte regole molto diverse da quello dell’illustrazione, ma ha un visual molto assimilabile. Mi piacerebbe assottigliare i confini tra i due mondi e trovare dei vasi comunicanti. Per la fermata di Tre torri ho fatto dei murales sulla banchina e sulle scale, ed è un lavoro ibrido in quanto è arte pubblica, ma c’è comunque di mezzo una committenza. In quella zona ci sono le torri di Generali e di Allianz, che sono due competitors come Inter e Milan, Roma e Lazio. Il primo limite è stato il colore, una ha come colore il blu, una il rosso, per cui dovevo fare molta attenzione alle modalità per utilizzarli. I contenuti erano legati al rispecchiare la comunità che abitava il quartiere, anche immaginando come questa nuova zona verrà popolata, sicuramente è stato un lavoro nuovo e molto stimolante e interessante.
In un’intervista recente uscita su “Repubblica” a proposito di American West (Corraini Edizioni) hai detto a proposito dell’augurio per il nuovo anno: “Spero che i 4 bambini di 10 anni da cui sono composto facciano pace e smettano di prendersi a sberle” mi sembra un’ottima definizione dei 40 anni di un creativo, è così che ti senti? E, soprattutto, a 50 anni saranno 5 i bambini di 10 anni o ci sarà almeno un maggiorenne tra loro?
Sicuramente la definizione era interessante perché l’articolo è uscito proprio il giorno del mio 40esimo compleanno e l’ho trovata molto azzeccata per tutti i movimenti che ho dentro, e una parte di questi è anche rappresentata dalla frase che da il nome della serie It’s not good enough. Mi sembrava la definizione più azzeccata, la mia mente che mi dice “questa cosa non è abbastanza bella, devi rifarla”, più personalità che ti dicono non hai fatto abbastanza, dovresti uscire di più ecc… credo che tutti noi al di là del lavoro che facciamo siamo molto sfaccettati, abbiamo tante ambivalenze ed è difficile definirci. C’è una parte di noi “nonno” che il sabato sera ci dice che vuole stare in ciabatte sul divano a guardarsi le serie tv, e l’altra che dice che vuole andare ai party.
Cosa bolle nella pentola di Emiliano Ponzi? Quali progetti hai in ballo e quali sono le idee che ti interesserebbe sviluppare? Avete dei progetti tu e Chiara a cui vorreste lavorare insieme.
Io sto facendo molte cose insieme, come sempre! Sono fresco di pubblicazione con American West, il libro uscito per Corraini editore su un viaggio che ho fatto in America con delle illustrazioni condivise quotidianamente sul canale Instagram del “The Newyorker” trasformatasi in una raccolta di serigrafie in serie limitata. Sto facendo tante cose per l’anno prossimo, con Chiara mi piacerebbe molto parlare, raccogliere cosa è successo qui, quali sono stati i punti di forza e debolezza e capire insieme come proseguire, Chiara che ne pensi?
C.P.: Credo che per entrambi questa esperienza sia stato un test, da parte mia c’è assolutamente la volontà di collaborare ancora con Emiliano, discuteremo appunto dopo la fiera con che modalità. Mi piacerebbe creare un’edizione sulla serigrafia del progetto portato qui, e stiamo valutando l’idea di creare uno Shop online per iniziare anche a vendere e dare spazio a questi illustratori. Chiaramente data anche l’esperienza nelle gallerie vado a finire sempre lì, magari progettare delle mostre per valorizzare il loro lavoro, proporre questa serie in altri luoghi se ci sarà l’opportunità…vedremo.
Il titolo del nostro Magazine Art for Breakfast – arte a colazione – nasce dall’idea che l’arte e la cultura siano il nutrimento quotidiano più importante, spesso consumato di fretta, ma che in fondo ci sostiene di più nelle giornate. Se tu potessi scegliere con quale arte nutrirti al mattino per vivere la giornata con energia cosa sceglieresti? In altre parole, se le opere d’arte fossero ciambelle quale mangeresti a colazione?
Domanda difficile! Mi sta venendo un immagine molto conosciuta, il viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich, un uomo di spalle con un paesaggio tutto da scoprire. Durante la mattina, appunto, è ancora tutto da scrivere, tutto da disegnare. Io a colazione comunque mangio barrette energetiche molto buone. E faccio colazione due volte, una alle 6.30 con le barrette e una alle dieci con una brioche al cioccolato enorme che trasuda cioccolato e ogni mattina è una lotta per non fare una performance artistica, un’esperienza quasi erotica. Ve la consiglio se passate da via Vigevano!
Credits:
Img. di copertina e Fig. 6: Tratte da The Journey of the Penguin, Penguin Books, 2015. Courtesy Emiliano Ponzi web site.
Fig. 1-4: Emiliano Ponzi, It’s not good enough n#2-3-1-4, 2018, Acrilico su carta Bleedproof Winsor and Newton, 42×29,7 cm. Courtesy Illustrazioni Seriali e Emiliano Ponzi.
Fig. 5: Emiliano Ponzi, The Whale, “Le Monde”, 27/03/2015. Courtesy Emiliano Ponzi web site.
Fig. 7: Emiliano Ponzi, Quel che resta di un genio, Long piece about David Foster Wallace legacy after 10 years from his death. Robinson/La Repubblica, 09/2018. Courtesy Emiliano Ponzi web site.
Fig. 8: Emiliano Ponzi, Frugality, “La Repubblica”, 12/2016. Courtesy Emiliano Ponzi web site.
Fig. 9-12: Emiliano Ponzi, It’s not good enough n#9-10-5-7, 2018, Acrilico su carta Bleedproof Winsor and Newton, 42×29,7 cm. Courtesy Illustrazioni Seriali e Emiliano Ponzi.
Fig. 13: Emiliano Ponzi, The Gallery, Milano City Life (Fermata Tre Torri metro lilla), 2017. Courtesy Emiliano Ponzi web site.
Fig. 14: Emiliano Ponzi, American West, Corraini editore, 2018. Courtesy Emiliano Ponzi web site.
Fig. 15: Da sinistra Chiara Pozzi, Emiliano Ponzi, Giulia Vitali e Francesca Tribò durante l’intervista ad Emiliano durante la 9° edizione dell’Affordable Art Fair.
Fig. 16: Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia, 1818, olio su tela, 98,4×74,8 cm, Hamburger Kunsthalle, Amburgo. Fonte Wikipedia.