A Milano, da una stazione metro all’altra, in uno dei vostri mille spostamenti, potrebbe esservi capitato di passare per la Stazione del passante ferroviario Lancetti e accorgervi di un animarsi diverso dal quotidiano brulicare urbano e lavorativo.
The Loser standing beside the victory, è il titolo di una serie di talk ed esposizioni realizzata presso lo Spazio Serra dal 10 dicembre 2018 al 25 gennaio 2019, che ha coinvolto artisti del panorama contemporaneo emergente. Fulcro degli incontri è stato il tema del fallimento, personale, artistico, lavorativo, umano, raccontato attraverso le frustrazioni, le riflessioni, il vissuto e le opere di: Andrea Barbagallo, Luca Bosani, Andrea Cancellieri, Maria Castagna, Maria Cristina Cavagnoli, Stefano Comensoli, Nicolò Colciago, Alessandra Draghi, Annaklara Galli, Nicola Gobbetto, Liana Ghuk Asyan, Silvia Hell, Luca Loreti, Martina Melilli, Valerio Rocco Orlando, Eleonora Rotolo, Davide Savorani, Luca Staccioli, Patrick Tabarelli e Caterina Voltolini.
Ma cosa si intende per fallimento? In che modo può condizionarci, bloccarci, rafforzarci o renderci ancora più fragili? Per approfondire questo tema per me così attuale e vicino, ne ho parlato con Gianluca Gramolazzi, curatore del progetto.
Roberta Ranalli: Iniziamo la nostra chiacchierata da Hua Cheng (ristorante cinese – ndr), davanti a una porzione di pollo alle mandorle e spaghetti saltati, anche per allentare un po’ la tensione dell’argomento. Partirei dall’inizio. Come mai la scelta di questo titolo?
Gianluca Gramolazzi: È la parte di una strofa di The winner takes it all degli ABBA. Come capita in alcune loro canzoni l’inglese non è proprio “oxfordiano”, e questo aspetto era uno dei punti che mi interessava esprimere: nonostante questi errori sono riusciti a diventare quello che sono stati, e sono.
Uno degli insegnamenti più belli che ho ricevuto durante il periodo del liceo è stato che l’errore rimane tale solo se non si è in grado di trasformarlo in qualcosa di più: di voluto e distintivo.
Anche se l’ammissione dell’errore, persino a se stessi, genera un sentimento di frustrazione. Parlando con amici e altri colleghi dei propri “fallimenti” ho compreso che era un problema diffuso, generazionale di chi ha subito il passaggio da locale a globale, da analogico a digitale.
Da “sociale” a “social”…
Nelle dinamiche dei social network, ma anche in quelle più interpersonali dirette, ciò che mostriamo è il nostro profilo migliore, il lato positivo; operiamo così un meccanismo di rimozione e occultamento del processo di frustrazione e dei micro-fallimenti che ci hanno portato fino a quel punto, in quel determinato momento e luogo.
Mi viene in mente, a proposito dell’errore – che affianca, per forza di cose, la dinamica di un processo creativo contraddistinto da fallimenti necessari e significativi – la cancellatura, la nota a margine che contraddistingue le opere letterarie e artistiche del passato e che testimoniano la bellezza della ricerca artistica. Penso che per le generazioni future non esisterà più, e perderanno una parte importante del processo.
La mia scelta va contro-questa-corrente, esponendo quello che l’artista non avrebbe mai mostrato volontariamente o elaborazioni appositamente pensate per rispondere alla domanda: “Qual è il tuo insuccesso o fallimento artistico?” Inoltre volevo mostrare il lato più debole e fragile, quello che non viene mai mostrato, se non in qualche eccezione, come ne Lavori da vergognarsi, ovvero il riscatto delle opere neglette di Cesare Pietroiusti.
Spesso durante gli incontri è venuto a galla il concetto di “compromissione” e “autenticità dell’opera”. Questa compromissione è sempre di più una questione personale, perché non vendi solo l’opera, ma anche te stesso. Il tuo “personaggio”.
La scelta dello spazio è stata intenzionale?
Sono passato davanti a Spazio Serra e l’ho visto vuoto. Ho subito pensato che la sua architettura potesse rispecchiare l’idea della chiusura interiore indotta in seguito a un fallimento. L’allestimento (che prevedeva l’installazione di pannelli bianchi che andassero a chiudere la visuale sia dall’interno che dall’esterno – ndr) ha rafforzato questo primo input, concretizzando l’impossibilità di guardare fuori. Quando senti addosso il tuo fallimento, non sei più capace di guardare oltre te.
In qualche modo il fallimento ti trasforma in qualcun altro. In qualcosa di altro. Tu non sei più tu: sei il tuo fallimento.
È come una seconda pelle…
Mentre parliamo arriviamo a Lancetti, in orario per l’incontro con Annaklara Galli. Le vetrate che affacciano sui tornelli del passante, le luci al neon e l’atmosfera “fermata metro ATM” in effetti è proprio perfetta. La chiacchierata con Annaklara si fa subito interessante. Sia lei, che Gianluca, che io (che incontravo l’artista per la prima volta) ci siamo parlati con una sincerità a tratti tagliente, che mi ha fatta riflettere sia sull’efficacia del formato scelto da Gianluca che sulle potenzialità del tema. L’artista ammette la difficoltà della richiesta di parlare e di esporre il proprio fallimento. “Perché – spiega – durante il percorso accademico ti portano verso la costruzione di un personaggio, capace di difendere la sua opera e il suo processo, che è anche un processo di vendita. Lì dove la vendita non è solo dell’opera, ma del personaggio stesso”.
Mettere al centro il fallimento è un processo “à rebours”.
Durante il nostro incontro Annaklara mi ha posto una domanda molto vera: “Sfileresti mai su un red carpet struccata? Probabilmente no”.
La mia risposta non può che essere questa.

R. Ma nel processo artistico la ricerca e il processo non sono un elemento accessorio. E se tagli la ricerca (i tentativi e i fallimenti) cancelli anche il percorso.
Annaklara: Il processo di sottrazione è, in effetti, un processo di superbia e “presunzione”. Poiché sono io a decidere cosa e come far vedere.
R. Siamo una società di prodotti finiti. In cui la forma finisce per prevalere sulla sostanza. Ma forse nell’arte ci si può concedere di osare di più. Di fare un passo verso una direzione altra…
G. Il mio intento era quello di riuscire a creare un posto in cui poter parlare per 2, 3, o 6 ore e andare in profondità senza pre-concetti e pre-giudizi. Di riuscire a ritrovare, anche nel fallimento, la complessità dell’agire e dell’altro. Non era una sfida facile ma tutti gli artisti che hanno partecipato l’hanno accettata, esponendo se stessi e il proprio lavoro in un modo diverso.
Alla fine dell’incontro ho ripreso il passante con pensieri e considerazioni ancora nella testa. Il posto che stavo lasciando non mi sembrava lo stesso in cui ero arrivata, e la prossima volta che mi capiterà di dover affrontare un fallimento forse riuscirò a farlo in maniera diversa: ridimensionando, accettando, o semplicemente cercando di cambiare punto di vista.