Si è abituati a vedere lo spazio espositivo di aA29 Project Room Milano trasformarsi continuamente. Con la mostra personale di Matilde Sambo (Venezia, 1993), Falsità in buona coscienza, si è raggiunta la massima mutazione. Quello di cui parlo, però, non è una trasformazione percepibile visivamente, ma è legata all’atmosfera creata nello spazio espositivo di piazza Caiazzo dalle opere della giovane artista. La mostra ruota intorno alla tematica del limite – del confine, oserei dire – in quanto interroga lo spettatore su quanto i binarismi del pensiero occidentale siano solo fittizi. Si ritrovano immediatamente tre dicotomie principali: sacro – profano, naturale – artificiale, umano – animale.
Durante il percorso espositivo, la divisione tra i concetti viene persa creando una sorta di cronostoria del binarismo contraddittorio dell’uomo. Infatti, vengono mostrati dei reliquiari che, con la loro potenza, riempiono lo spazio di una forte atmosfera sacra. Emblema di ciò che è più sacro, la reliquia è stata per lungo tempo al centro di discussioni e di lotte, senza perdere però la sua matrice sacra e soprannaturale: dai templari, fino alla sacra sindone si è ancora scettici su quanto si possa parlare di materiale storico oppure artificio a scopo di lucro. Sambo, così, agisce sulla stessa ambiguità, esponendo degli oggetti talmente misteriosi e stratificati da perdere la percezione di che cosa effettivamente siano. Ossa? Forse coralli o, forse, metalli consumati e corrosi da animali marini e dall’ossigeno. Sono quindi sacri o profani? Animali o umani? Naturali o artificiali?
Intorno ai reliquiari, le pareti diventano i muri di una wunderkammer dove è continua l’elisione del limite. La sensazione di essere in una camera delle meraviglie, però, sparisce presto. Le opere hanno perso quell’aura di stupore che le circondava, dischiudendo il segreto simbolico che celavano dentro di loro come la cicala, che diventa l’oggettivazione dell’anima astratta, intrappolata nella cera d’api, le lavoratrici; oppure le ciocche di capelli che diventano simbolo di prosperità, attingendo alla cultura cristiana, ma che assumono, grazie alla cera, la rigidità di una stalattite.
La mostra della giovane artista veneziana, attraverso la riflessione sulle tematiche sopracitate, riesce a toccare punti molto critici per i tempi nei quali stiamo vivendo. Mi viene da pensare che a queste dicotomie si possa aggiungere, con una riflessione ulteriore, quella tra bene e male. Già largamente affrontata da moltissimi filosofi, questa dicotomia è la più dura a essere superata. Il grande credito, quindi, è quello di far capire come le divisioni siano soltanto legate ai condizionamenti culturali nei quali siamo inseriti.
Gianluca Gramolazzi: Il tuo ragionamento sembra vertere sulla critica del pensiero binario. Credi che questo possa essere la base per fondare una nuova tipologia di ragionamento che esclude, non a priori, le opposizioni? Eliminare i confini, che scopo ha per te?
Matilde Sambo: Credo nell’ibridazione, nell’unione degli opposti che devono esistere e co-esistere, così da generare pensiero, idea, cortocircuito. La mia ricerca tende da sempre alla messa in dialogo di mondi apparentemente opposti, in cui la linea di confine è sempre più labile e indistinguibile. Nella mostra tutti i lavori presenti sono oggetti formati dalla coesistenza di materiali di origine diversa, naturale, animale e artificiale, che si uniscono formando qualcosa di nuovo. Quindi si, credo che gli opposti non debbano essere qualcosa da escludere, ma che sia necessaria una coesistenza che tramuti il dialogo in un terzo elemento. Ci troviamo in un momento di estrema fluidità in cui è sempre più forte la presa di coscienza di essere singoli, ma appartenenti a un tutto più grande.