“Culture Action: idee giovani, cultura attiva!” questo è lo slogan del progetto di cittadinanza ideato e curato da Stefania Rossi, responsabile della promozione del Museo Poldi Pezzoli di Milano insieme ai ragazzi del Gruppo Giovani del museo, con la consulenza della professoressa Laura Colombo e con il sostegno di Rizzoli Education e di Soroptimist Club Milano Fondatore.
La Culture Action, nata in occasione dell’introduzione del curricolo disciplinare di Educazione Civica nelle scuole, si fonda sulla partecipazione attiva dei giovani in modalità peer to peer education: la strutturazione degli eventi ad essa connessi è stata realizzata grazie al lavoro sinergico dei ragazzi del liceo classico Beccaria e di quello artistico Boccioni di Milano, affiancati dai loro docenti e dai ragazzi del Gruppo Giovani del Museo Poldi Pezzoli. La Culture Action vuole essere una vera e propria chiamata all’azione, pensata dai giovani per i giovani al fine di valorizzare il patrimonio storico-artistico di Milano, diventando così una splendida concretizzazione delle tematiche di valorizzazione e tutela del patrimonio artistico che trovano fondamento giuridico nella Legislazione dei Beni Culturali e nella Convenzione di Faro.
Uno scatto artistico è il primo appuntamento della Culture Action. Si terrà domenica 7 Marzo alle ore 18 (purtroppo ancora) sulla piattaforma di Zoom. L’evento, in collaborazione con il Photo Festival di Milano, propone un percorso fotografico per riscoprire le sale del Museo Poldi Pezzoli, distrutte dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, attraverso l’utilizzo di fotografie storiche. È possibile iscriversi gratuitamente, mandando una mail a giovani@museopoldipezzoli.it.
La passeggiata tra le fotografie sarà guidata dal Professore Roberto Mutti, storico, critico e docente di fotografia, ma anche curatore indipendente che ha realizzato mostre di giovani promettenti e autori già affermati. Abbiamo avuto l’onore di fare una chiacchierata con Mutti, il quale non ci ha solamente dato un’anteprima sulle fotografie di cui parlerà nel primo appuntamento della Culture Action, ma ci ha anche raccontato molti aneddoti e dato curiosi spunti di riflessione sul mondo della fotografia.
Vi riportiamo di seguito questa bellissima chiacchierata.
Cosa ne pensa dell’attività svolta dal Gruppo Giovani del Museo Poldi Pezzoli e in particolare della Culture Action?
L’idea è molto buona, mi sembra che funzioni bene in tutte e due le direzioni. Dalla parte del museo perchè esso diventa un luogo di apertura; il termine museo evoca subito un qualcosa di antiquato, o forse evocava. È bello che un museo mostri il suo vero aspetto che non è quello soltanto della conservazione. Dalla parte dei ragazzi è utile perché hanno a che fare con delle storie bellissime e con cose che non sono teoriche – non che la teoria non vada bene.
Passando invece a lei: quale è il suo museo preferito nella realtà milanese?
È difficile fare davvero una scelta, perché ognuno ha un qualcosa che funziona. Per esempio, il Museo del Novecento mi piace molto anche come idea. Perché abbiamo l’impressione che il Novecento sia contemporaneo, ma è già passato a dire il vero. Per voi è sicuramente passato, per me invece è stato la mia vita per molti aspetti. Ecco, per esempio nel Museo del Novecento una cosa di cui mi sono sempre lamentato è che non c’è uno spazio dedicato alla fotografia. Eppure la fotografia è l’arte che si è affermata nel Novecento ed è una carenza molto grande. Io sento molto la mancanza di un museo della Fotografia, inteso proprio come un museo, non come un qualcosa che ha dentro delle immagini, non come il Museo di Cinisello, che dovrebbe aprirsi anche alle tecniche. Un altro museo che secondo me è sottovalutato dai milanesi è il Museo della scienza e della tecnologia. Io ho visitato molti musei in Europa e non credo che abbia niente da invidiare ad essi.
Il bello di Milano è che ha questa serie di musei, non sempre messi in rete come in altri Paesi, e ognuno ha qualcosa che può mostrare. In più ci sono dei musei a cielo aperto come il Castello Sforzesco, che poi ha una bellissima collezione nelle civiche raccolte dove la fotografia ha un bel peso. Non mi sento di sceglierne uno, se dovessi scegliere un’accoppiata, così superiamo il vecchio dissidio tra Scienza e Scienze Umane, direi Museo del Novecento e Museo della Scienza e della Tecnologia. Questo senza escludere ovviamente le Case Museo che fanno parte di una logica un po’ diversa, cioè quella della grandiosità di celeberrime famiglie che poi hanno generosamente aperto le loro collezioni a tutti.
Secondo lei, come mai è così difficile costituire e pensare un museo dedicato solo alla fotografia?
Dunque prendiamo come esempio il Museo delle Automobili, che è un’altra delle mie passioni. L’alfa Romeo apre un museo e lo dedica a sé stessa e perché lo fa? Perchè ha una grande passione e perché c’è un orgoglio dell’appartenenza che noi invece sulla fotografia non abbiamo mai avuto. C’è sempre una scusa. Quello che si dice è che noi abbiamo così tante opere d’arte e quindi diciamo che non c’è spazio per la fotografia. Ovviamente è una sciocchezza perché a Torino esiste uno splendido Museo del Cinema che è un modello a cui io mi ispirerei per fare un museo della Fotografia. Esistono musei di fotografia, ma non hanno la logica di far capire il senso della tecnica fotografica, cosa che sarebbe molto importante proprio perché la fotografia cammina su due gambe: una estetica ed una tecnica. Chi si occupa di queste cose spesso non sta attento ad entrambe… Ad esempio, il teleobiettivo è stato inventato in Italia e la prima Reflex monouso è stata realizzata a Roma… perché non mettere in risalto queste cose? Insomma, non c’è questa concezione. Oltretutto chi arriva a dirigere questi musei è chiuso in sé stesso e allora la fotografia non decolla. Invece io ci vedrei i bambini che entrano in una grande macchina fotografica e al cui interno viene spiegato come funziona.
Walter Benjamin nel suo saggio “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” sostiene che la Fotografia contribuisca a far perdere l’aurea di sacralità data dall’unicità dell’opera d’arte. In quest’ottica come è riuscita la fotografia ad entrare all’interno dei meccanismi economici del mercato dell’arte in cui l’unicità dell’opera è condicio sine qua non per la determinazione del valore della stessa?
Io sono il capo dipartimento di Finarte per quanto riguarda la fotografia quindi conosco bene questi meccanismi di mercato. Allora, esistono altri Paesi europei (Germania, Francia, Inghilterra e Svizzera) più attenti alla fotografia. Lì c’è da sempre un’attenzione molto grande. I primi musei in Francia e in Inghilterra dedicati alla Fotografia nascono nel 1800 e queste “presenze” conferiscono un’attendibilità alla fotografia per i collezionisti. Esiste per esempio un sistema tedesco che è basato sul collegamento tra: la scuola, come la famosa scuola di Düsseldorf, con circa 12 studenti che apprendevano con una logica seminariale, mentre in Italia una realtà di questo tipo sarebbe stata chiusa perché c’è solo una logica mercantile delle cose. Invece a Düsseldorf hanno fatto crescere questi studenti e sono diventati dei grandi autori perché sono stati promossi: gli hanno fatto fare delle grandi mostre, si sono messi in contatto con musei, le banche hanno aiutato sia i musei ad acquistare le opere, sia l’Università. I collezionisti, vedendo che le opere venivano comprate dai musei, hanno cominciato a riconoscere l’importanza degli autori e nel tempo si sono avvicinati anche loro. Questo è un sistema che potrebbe essere applicato.
Per quanto riguarda i collezionisti ce ne sono di due tipi in Italia: da un lato c’è chi è appassionato di fotografia e si intende anche di tecnica; questi trovano ovvio che una fotografia sia un multiplo. Dall’altro ci sono i collezionisti d’arte o coloro che si avvicinano alla fotografia perché, per esempio, se sono giovani e un’ottima fotografia costa molto meno di un modesto quadro. A questi va spiegato che la fotografia è un multiplo. E allora da qualche tempo, si decide che la fotografia debba avere una tiratura; per convenzione si intende come opera unica quella che è tirata in 7 esemplari. L’autore potrebbe fare quante tirature vuole e allora i fotografi sono andati incontro alle esigenze dei collezionisti e si è raggiunto il il compromesso del numero limitato di copie e ovviamente non sono interessati a realizzarne altre perché il mercato se ne accorgerebbe e verrebbero emarginati. Queste cose implicano delle conoscenze e pertanto sono necessari degli intermediari seri, che siano Case d’aste o esperti del settore. Faccio un esempio: c’è una famosa serie di Mario Giacomelli che si diceva essere stata stampata in 5 copie, ma in realtà ne sono state stampate solo 3; quindi se troviamo una quarta fotografia di quella serie, allora questa sarà un falso. Poi, siccome la fotografia ha un certo valore ma non tanto quanto alcune opere pittoriche, se un’opera ci sembra un falso allora non vale la pena acquistarla. Ci sono anche delle contraddizioni interne: alcuni autori come Nino Migliori non fanno tiratura, ma siccome le opere piacciono molto hanno comunque un mercato. Certo, se uno pensa di investire in arte per guadagnarci, allora è meglio che vada a giocare nel campo dell’arte. Il collezionismo della fotografia rimane molto legato alla passione e il consiglio che do sempre è proprio “Comprati una cosa che ti piace, non una cosa che ha valore, ma non ti piace”.
Passando invece a ciò di cui parlerà durante la Culture Action, le prime fotografie del Museo Poldi Pezzoli risalgono alla fine del 1800. Ovviamente i fotografi avranno incontrato delle difficoltà…Ce le potrebbe raccontare?
Un po’ di difficoltà sono reali, soprattutto il problema dell’illuminazione. Oggi i musei sono molto attenti alla luce che deve valorizzare le opere e gli ambienti. All’epoca, nelle case museo in cui gli oggetti venivano accumulati, questo creava non pochi problemi, che i fotografi risolvevano in molti modi. Bisogna pensare che non c’era l’illuminazione elettrica o comunque non c’erano i collegamenti; l’altro aspetto è che non c’era il flash. Si utilizzava all’epoca un flash un po’ rudimentale: si metteva una polvere che si poteva incendiare su un piattino di metallo e si creava un lampo da utilizzare come fonte di luce mentre si scattava la fotografia. Il problema è che non c’era alcun controllo e si creavano delle ombre molto forti. C’erano dunque una serie di problemi molto grandi che loro risolvevano con molta disinvoltura, usando pannelli riflettenti, degli specchi in modo da indirizzare la luce e poi usavano tempi di esposizione più lunghi tanto gli oggetti erano inanimati, quindi non c’era alcun problema. Però tutte queste cose, tra cui anche l’utilizzo di grandi attrezzature e macchinari, a noi sembrano qualcosa di complicato perché abbiamo l’abitudine alla rapidità dell’esecuzione. Per i fotografi dell’epoca, invece, era normale muoversi in questo modo, aspettare la luce giusta, anche se significava attendere fino al giorno dopo. Ogni loro scatto era straordinario, noi magari siamo più superficiali.
Un’operazione come quella di fotografare tutta la collezione del Museo Poldi Pezzoli era finalizzata alla mera documentazione o ci potevano essere altre finalità?
No, era pura documentazione. Oggi qualsiasi fotografo che sappia come muoversi viene categorizzato come artista. Ogni foto bella oggi viene chiamata artistica. È un aggettivo abusato, ma bisogna stare attenti: se poi tutti sono artisti, di fatto nessuno lo è più veramente per ovvie ragioni di esagerazione e di enfasi. Loro invece, erano particolarmente attenti all’aspetto tecnico: realizzavano semplicemente quello che ritenevano giusto. Era un lavoro su commissione. Un tempo poi gli studenti di Belle Arti lavoravano su disegni. Chi poteva viaggiare era ci aveva una disponibilità economica che permetteva di girare e andare a vedere i luoghi da cui era partita la cultura che ci appartiene. La cultura che ci appartiene è quella dell’area del Mediterraneo, del Sud Italia, della Grecia e della Mesopotamia. È da lì che è nato tutto: la filosofia, i miti e la letteratura. Allora andavano a vederlo direttamente e quando andava bene disegnavano quello che vedevano. Uno studente allora come faceva a sapere come era fatto il Partenone? Doveva avere un disegno. Quando invece ha cominciato a diffondersi la fotografia, uno dei clienti più interessati a queste foto erano gli studenti di Belle Arti perché acquistavano le loro fotografie per ricopiarle. È stata una rivoluzione di cui non abbiamo sentore perché siamo nati che le immagini c’erano già.
Quindi quello che i fotografi facevano all’epoca era riprodurre quello che c’era nel modo più preciso possibile, senza sapere che poi sarebbe diventato un documento fondamentale nel momento in cui questi oggetti sarebbero venuti a mancare.
I due fotografi che hanno realizzato queste fotografie del Museo Poldi Pezzoli sono Carlo Marcozzi per lo Studio Montabone e Domenico Anderson. Ci sono delle differenze significative sui due lavori?
Sì perché Anderson era un grande fotografo anche perché figlio di un fotografo di valore e quindi lui è stato il primo ad introdurre l’illuminazione e lo specchio; lui ha una visione molto più attenta sulle riproduzioni delle opere d’arte. Nell’altro caso abbiamo uno dei tanti studi fotografici a Milano, in cui in genere si facevano ritratti, che viene chiamato e operando in quel settore ci si accorge che ogni tanto ci sono dei problemi di illuminazione, anche se il valore di quel lavoro è nella sua totalità. Nel senso che Carlo Marcozzi ha fotografato tutto quello che c’era e questo è davvero importantissimo, perché ha documentato ogni cosa e questo di solito non si faceva, ci si accontentava piuttosto di qualche veduta.
Ultimissima domanda: se una persona arrivasse da lei e le dicesse di voler leggere un libro sulla fotografia, cosa gli consiglierebbe?
Allora, uno è la raccolta di saggi di Walter Benjamin “L’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”. Poi dipende dalla persona che viene: se è una persona che ama la riflessione allora direi il libro di Susan Sontag “Sulla fotografia” e quello di Robert Adams “La bellezza in fotografia”. La fotografia è come un compasso: la fotografia è il punto di appoggio e se poi allarghiamo l’altra parte del compasso facciamo cerchi sempre più larghi; per cui per esempio io mi sono appassionato agli insetti fotografandoli e così ho cominciato a studiare gli insetti e mi si è aperto un modo che non immaginavo. Se una persona, invece, vuole leggere di come si interpreta una fotografia deve leggere di Roland Barthes “La camera chiara”, che è una raccolta di riflessioni sulla fotografia ricca di spunti.