Intervista a Francesco Poli

poli1Nel 2015, durante la partecipazione all’8 Master in Economia e Management dei Beni Culturali della Business School del Sole 24 Ore avevo avuto la possibilità di condividere con Francesco Poli alcune riflessioni sulla realtà odierna dello studio della Storia dell’arte. Ecco l’intervista integrale del 2 luglio 2015.

Iniziamo dalla sua formazione…

Mi sono laureato in Filosofia con indirizzo sociologico…nell’arte contemporanea sono praticamente autodidatta! Dalla fine degli anni ‘70 ho lavorato all’Accademia di Carrara prima come assistente e poi come professore, successivamente a Brera ho tenuto la cattedra di Storia dell’Arte contemporanea fino a ottobre 2014. Dalla fine degli anni ‘90 insegno anche a Parigi all’Università Paris 8, a Parigi-St. Denis, e sono professore a contratto a Torino presso la facoltà di Scienze delle Comunicazione, laurea magistrale in Comunicazione e Cultura di Massa.

Quali differenze ha riscontrato tra l’università italiana e quella francese?

Non ho riscontrato una differenza sostanziale tra i due paesi, esiste piuttosto una differenza tra l’insegnamento nelle accademie, dove queste materie sono centrali e rappresentano un aspetto centrale nella formazione di ragazzi fortemente motivati, e gli altri indirizzi universitari. In Francia insegno ad una facoltà simile al Dams di Bologna e lì ci sono studenti interessati, mentre a Torino, trattandosi di una laurea in Comunicazione, gli studenti non possiedono una base per la storia dell’arte e quindi il mio lavoro è più incentrato sulla diffusione di una cultura artistica di base.

Ma quindi lei ritiene che si dovrebbe insegnare meglio l’arte nei licei o si può anche procedere da autodidatti se c’è l’interesse?

Bisognerebbe insegnarla meglio nelle scuole superiori così da far scaturire un interesse negli studenti. Ci dobbiamo ritenere fortunati perché in Italia esiste l’insegnamento di storia dell’arte mentre in Francia nei licei è assente.

Perché è utile applicare lo studio socio-economico al mondo dell’arte?

L’aspetto sociologico dell’arte mi è interessato fin dall’inizio dei miei studi. L’idea di analizzare e conoscere la struttura del “sistema arte” anche nei suoi aspetti di gestione economica è fondamentale perché la costruzione del “prodotto opera d’arte”, da un punto di vista socio-culturale e socio-economico, è qualcosa a cui contribuiscono tutti gli addetti ai lavori del mondo dell’arte e non solo l’artista che produce l’artefatto. Ritengo, quindi, necessario diffondere e conoscere le condizioni concrete di esistenza, valorizzazione, collocazione, circolazione e vendita delle opere, perché anche tutti questi aspetti fanno parte della storia dell’arte e non si può condurre uno studio se non si conosce la materia in modo approfondito.

Secondo lei quali problematiche hanno le istituzioni museali italiane e quali sono i modelli da seguire?

I musei di arte contemporanea in Italia si sono sviluppati in maniera non così strutturata ed efficiente come in altri paesi come la Gran Bretagna, la Francia e gli Stati Uniti. Basti pensare agli anni ’60-’70: gli unici musei in Italia che si occupavano di arte contemporanea in modo attivo erano la Galleria d’Arte Moderna di Torino, la Galleria nazionale di Roma con Palma Lucarelli, la Galleria d’Arte Moderna di Bologna e il Pac di Milano, che ha svolto un’attività degna di nota seppur limitata rispetto alle potenzialità di una città come Milano, al centro della circolazione e commercializzazione dell’arte contemporanea sul territorio. Occorrerebbe sicuramente strutturare un sistema più flessibile per gli investimenti, per l’incremento delle collezioni, sviluppare proposte sperimentali interessanti a livello internazionale per dar vita a scambi di lavoro e dovremmo porre maggior attenzione all’arte italiana, non in senso nazionalistico, ma per far sì che anche i musei italiani creino una rete di circolazione con quelli stranieri. In definitiva i musei dovrebbero avere una funzione più attiva e più aperta. Siamo in questo senso molto arretrati.

In un’intervista che ha recentemente rilasciato ad Arteperchi lei parlava dell’atteggiamento del pubblico nei confronti dell’arte contemporanea: la famosa formula “non lo capisco”. C’è una pretesa del pubblico che le opere d’arte siano da comprendere solo in modo intuitivo e che l’arte sia facile?

L’arte non deve esser facile! È diffusa l’idea che l’arte si possa comprendere per istinto e sensibilità, ma i lavori artistici sono costruiti su linguaggi complessi. Bisogna possedere le coordinate di fondo che sono quelle radicate nella storia dell’arte e nelle specifiche modalità operative degli autori. Conoscere gli autori così come negli altri settori bisogna conoscere le regole del gioco! Fare qualcosa in questa direzione è importante. Non basta dire mi piace o non mi piace, spesso esistono dei criteri di giudizio dell’arte che sono stereotipati, occorre mettere in discussione i propri giudizi e verificare in che misura essi siano adeguati. Esiste tanta banalità a livello di esposizioni, una superficialità dilagante ad esaltare artisti di moda. Gli artisti bravi sono pochi ma, al contempo, esistono tanti professionisti abili. È importante saper selezionare ed educare il proprio gusto. A questo proposito nel 2014 ho pubblicato “Non ci capisco niente”, una lettura di opere importanti che cerca di mettere a fuoco il giusto atteggiamento di riflessione meditata che si deve assumere davanti all’opera d’arte.

I media dovrebbero dare maggior spazio all’arte?

I quotidiani seri italiani hanno delle pagine dell’arte di qualità, ma non dovrebbero dar troppa corda alle derive scandalistiche e spettacolari dell’informazione, spingendo troppo sulla spettacolarità dell’effetto arte sui record d’aste, furti o attribuzioni fuorvianti. Per carità sono informazioni importanti, ma non si può puntare solo su quello e non fornire al lettore gli strumenti per comprendere tali avvenimenti.

Nella Milano dell’Expo si è parlato molto delle due mostre “Arts & Foods” di Celant e “I Tesori d’Italia” di Sgarbi nel padiglione di Eataly. Ci dà un suo parere? Il compenso di Celant ci dice che anche i curatori sono diventate delle star?

Quella di Sgarbi non l’ho vista e non mi interessa vederla. La mostra di Celant è davvero una bella mostra. Saper anche solo dirigere uno staff di ricerca del genere è già una grande qualità. Che sia costata troppo è chiaro, ma questo non intacca la qualità del lavoro. I soldi basta non sprecarli e questi sono ben spesi.

Ha in cantiere una nuova pubblicazione?

Due: una con Francesco Bernardelli per Johan & Levi sul tema del rapporto tra spazio dell’opera d’arte e spazio intorno all’opera. Si tratta di un’analisi dei momenti chiave del coinvolgimento progressivo dello spazio reale nell’operazione artistica e come questo, di conseguenza, abbia influito sulla logica stessa degli spazi espositivi. L’altro libro, di stampo sociologico, è sulla Gioconda per indagare come sia diventata un’icona universale, é una riflessione teorica su cosa è Immagine, e la Gioconda è l’icona dell’immagine per antonomasia.

Credits:
Fig.1: Francesco Poli. Courtesy of Gemme.

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