The DATA CENTER MURAL PROJECT realizzato da quattro artisti sulle facciate delle sedi Google.
Ci sono luoghi nel mondo mai visitati fisicamente, probabilmente molti di noi non ne sono nemmeno a conoscenza; eppure sono fondamentali per il funzionamento del nostro amato Internet, necessario per le nostre vite più del pane (che comunque è fonte di carboidrati, quindi, secondo i più, da evitare accuratamente). Parliamo dei Data Center, centri di smistamento dove confluiscono miliardi di dati e grazie ai quali le informazioni e le conoscenze – compreso questo articolo – sono disponibili in diverse forme e con varie metodologie di accesso.
The Data Center Mural Project è la nuova iniziativa di Google, grazie alla quale il mondo della Street Art ha invaso i muri dei grandi Data Center.
L’iniziativa è stata promossa dalla grande G in diversi luoghi del mondo. Finora sono quattro i grossi contenitori che si rivestiranno di arte e colore. Quattro grandi centri simbolo dell’ high-tech che saranno trasformati in opere d’arte da quattro Street Artist.
Due i progetti terminati, due quelli in corso.
Jenny Odell – Oklaoma
Questo è il primo intervento fatto in uno dei più importanti siti, quello di Meyes County in Oklaoma. Tra i più importanti poiché serve ampie aree dell’Occidente e alcune zone degli Stati Uniti. A salvare dal grigiore la valle dell’Oklaoma è Jenny Odell, specializzata in arte digitale e ispirata nei suoi lavori dalla volontà di innestare una profonda ricerca delle immagini con una scrittura emotiva. L’artista ha creato un vero e proprio collage di immagini prelevate da Google Maps. Il risultato è un immenso murale che trasmette la natura materiale della nostra esistenza presente in rete.
Oli-B – Belgio
Nel vecchio continente prende vita, invece, il secondo progetto: quello dello street artist belga Oli-B, che ha dipinto le pareti dell’edificio di St. Ghislain, con un’interpretazione tutta sua di Cloud. Nella nuvola-murales sono (im)perfettamente visibili le figure astratte delle persone e dei dipendenti che gravitano intorno alla sede che serve tutta l’Europa Occidentale. Il murale è una vera e propria nuvola super colorata in pieno stile Oli-B.
Gli altri due sono previsti a Dublino, per mano di Fuchsia Macaree e a Council Bluffs, per mano di Gary Kelley.
Di Street Art, Google si era già occupato a partire da giugno 2014 con Google Street Art Project, parte del più ampio Google Art Project. In tal senso, The Data Center Mural Project si inserisce nell’ambito delle attività di Google, volte ad avvicinare chiunque – anche il nerd più nerd tutt’uno con la sua postazione pc – ai grandi progetti artistici nel mondo, rendendoli osservabili e visitabili facilmente, attraverso viaggi virtuali di chilometri e chilometri in un solo click.
Al progetto è stato dedicato un sito, in pieno stile “facciamolecoseingrande” (e d’altronde chi può se non Google), dove è possibile esplorare il lavoro degli artisti e il backstage nelle sedi interessate. Protagonisti sono anche i dipendenti e i collaboratori che hanno partecipato attivamente.
L’iniziativa, però, è anche una delle risposte al principale problema legato ai Data Center, e cioè l’impatto ambientale. Oltre al fatto che rappresentano delle vere e proprie distese di cemento, che spezzano la bellezza dei paesaggi in cui sono inserite, sono fonte di inquinamento atmosferico. In alcune realtà, infatti, si tratta di strutture organizzate su scala industriale, il cui consumo di energia elettrica è paragonabile a quella di una città di piccole dimensioni.
La Street Art è vista allora come la bacchetta magica che trasforma i brutti complessi industriali in opere di più bell’aspetto. Grazie al progetto, i luoghi di lavoro diventano integrati nel territorio e gradevoli per i dipendenti; finestra del mondo sulle milioni di connessioni al secondo, racchiuse fisicamente in quei giganti grigi. In questo caso, il progetto di Google rappresenta una vera e propria case-study nella rosa delle buone pratiche di comunicazione aziendale associata alla cultura e dei connubi tra il sostegno all’arte e alla cultura e la responsabilità sociale.
Chissà che le altre aziende inizino a trasformare i loro mostri ecologici in opere (almeno) belle da guardare?